Appunti di
viaggio di un musicista
di
Carlo Bagnoli
Articolo pubblicato sul n.678 della rivista "RITMO"
(per gentile concessione dell'Editore Mary Cadini)
Considerando che
le opportunità di lavoro in Italia, per un musicista di jazz italiano, sono
molto ridotte poiché il circuito dei concerti e, soprattutto dei festival, è
quasi interamente nelle mani dei musicisti stranieri, in prevalenza americani,
da parecchi anni ho ritenuto opportuno cercare anche dei contatti all'estero. E
ho fatto bene, considerando l'attività finora già svolta al di fuori dell'Italia
e l'attività che ho in programma per il futuro. Europa, Stati Uniti, Medio
Oriente, Africa e Sud America sono state le tappe della mia attività, oltre
naturalmente i molti concerti e le molte serate svolte in Italia.
Questa situazione, gratificante sotto il profilo professionale e artistico,
presenta oltre tutto la possibilità di visitare paesi nuovi e di vivere
esperienze diverse, talune delle quali decisamente inconsuete.
Impressioni, sensazioni, situazioni non soltanto musicali, vissute per di più
con la sensibilità del musicista e non per questo più autentiche e genuine, ma
filtrate da quella emozionalità propria del musicista, così come del pittore,
dello scrittore o comunque di chiunque abbia fatto della creatività una scelta,
non solo professionale, ma di vita e il jazz, è noto, è letteralmente costruito
sulla creatività.
Ciò premesso, ritengo che valga la pena di tanto in tanto cercare di raccontare
talune di queste esperienze.
LA MANO DELL'AFRICA
Addis Abeba.
Sbarcammo (Gianni Coscia, Franco Finocchiaro e io, in altre parole l'Atmosphere
Jazz Trio), in un aeroporto che, più che tale, sembrava un mercato brulicante di
umanità vociante, sommersa da enormi involucri di cartone e da fagottoni avvolti
di coperte che gli addetti alla dogana controllavano con esagerata minuzia. A
tali operazioni riuscimmo fortunatamente a sfuggire grazie alla solerzia di un
addetto locale che, in possesso della lista dei nostri strumenti e bagagli,
precedentemente vistata, ci ha letteralmente sottratto alla curiosità aggressiva
degli agenti doganali e successivamente accompagnati in hotel.
Un hotel piccolo, un po' malridotto sebbene di recente costruzione, ma tutto
sommato decente, piantonato in permanenza da un guardiano in una logora divisa
kaki, che di giorno imbracciava un manganello minaccioso e di notte portava a
tracolla un fucile, certamente un residuato bellico della guerra di Abissinia.
Un guardiano messo lì a protezione dei clienti da chissà quali pericoli, tenuto
conto che la costruzione, seppure abbastanza vicino al centro della città, era
tuttavia situata nel bel mezzo di una baraccopoli, una vera e propria sorta di
favelas misera e fangosa, non del tutto rassicurante.
Davanti all'albergo stazionava un drappello di ragazzini vestiti di stracci,
scalzi, sporchi, in attesa dei pochi clienti che vi entravano o ne uscivano e
che venivano immediatamente circondati e sottoposti a vocianti richieste di
denaro o invitati a farsi lustrare le scarpe, con stracci e attrezzi talmente
sudici da renderle probabilmente del tutto inutilizzabili. Noi tre, dovendo
entrare e uscire dall'albergo con una certa frequenza e per quasi una intera
settimana, diventammo i beniamini di questa turba di ragazzini che ci correvano
incontro urlando, ridendo, saltellando in un turbinio a modo loro festoso. "Father,
one birr!" ci chiedevano tendendo le mani (il birr è la moneta locale) e, per
quanto potevamo, cercavamo di accontentarli.
Diventò un rito. Ad ogni uscita o entrata eravamo sottoposti a questo
"abbraccio", scomodo ma tutto sommato allegro e inoffensivo.
Un pomeriggio, al termine del quotidiano acquazzone, avendo del tempo libero a
disposizione, uscimmo per fare quattro passi nei dintorni dell'albergo, anche se
sapevamo quello che sicuramente sarebbe accaduto.
E infatti fu così. Appena fuori, a debita distanza dal raggio d'azione del
manganello del guardiano, i ragazzini ci raggiunsero urlando e ridendo,
circondandoci senza tuttavia impedirci di camminare. E, metro dopo metro, dalle
vicine baracche altri ragazzini si aggiunsero ai precedenti, tutti ugualmente
interessati alle nostre tasche. "Father, one birr!". In mezzo a questa turba di
scalmanati, un po' aggressiva ma non pericolosa, si faceva strada faticosamente
un bambino piccolo, il più piccolo di tutti, forse di cinque o sei anni, magro,
sporco e scalzo, il cui altro non era che un piccolo sacco logoro e sudicio con
dei fori da cui uscivano un visino ovale, le braccia, e sotto il quale
spuntavano due gambine minute, infangate fino alle ginocchia.
Quando finalmente riuscì a raggiungermi, tendendomi la mano mi guardò
sorridendo, pronunciando un suono non ben definibile, molto simile a "hem", "ben"
o qualcosa del genere che non riuscivo tuttavia a decifrare. Cercai una moneta e
gliela porsi, ma lui non la prese, pur continuando a tendere la mano,
facendosela soffiar via da un ragazzino più lesto di lui. Gli porsi un'altra
moneta ma non prese neanche questa. Eppure continuava a tendermi la mano e a
pronunciare quelle strane sillabe. Un terzo tentativo ebbe lo stesso risultato.
Alla fine mi chinai verso di lui per cercare di ascoltare meglio, in mezzo a
tutta quella confusione, quello che diceva. E mi parve di capire che quel suono
infantile forse significava "hand", mano. Mano? Semplicemente voleva la mia
mano. Voleva che lo prendessi per mano, e non appena lo feci gli si illuminarono
gli occhi, mi si mise al fianco e camminò assieme a me con un'aria orgogliosa e
felice. E così, mano nella mano, facemmo assieme qualche centinaio di metri,
leggermente staccati da tutti gli altri ragazzini che, improvvisamente, si
tennero un po' a distanza, saltellando festosi e ridendo divertiti. Io lo
guardavo sorpreso e lui guardava me con un sorriso luminoso sul suo visetto
ovale.
Non aveva voluto la mia elemosina. Cercava qualcosa di più, un contatto umano
con un adulto, con una figura che potesse rappresentare, nella sua realtà
infantile, un padre forse mai avuto, voleva una protezione per pochi attimi, una
manciata di secondi durante i quali non dover provvedere, così piccolo, a se
stesso, una minuscola parentesi di esistenza tranquilla, il calore di una mano
sicura.
L'Africa mi aveva dato la sua mano. L'Africa vera, non quella dei safari
fotografici, dei villaggi turistici sull'oceano, non quella romantica dei
racconti di Hemingway, ma quella reale, quel terzo mondo di cui spesso si parla
ma del quale non si ha la più pallida idea finchè non ci si ritrova in mezzo. E
lo aveva fatto con la dignità istintiva di un bambino che, al pari suo, è
destinato a crescere. Una crescita, la sua e della sua razza, di cultura e di
dignità. Una crescita già iniziata e destinata ad esplodere, nei prossimi
decenni, tra le razze di colore di tutto il modo.
Ed è proprio questa considerazione che, ora, mi fa pensare che forse ho male
interpretato, allora, quell'episodio. Non era forse più probabile che, in quel
gesto così decisamente voluto, quel bambino, così piccolo ma così determinato,
non volesse chiedere ma offrire protezione? Ricordando l'espressione felice e
orgogliosa del suo sguardo, mi domando se non avesse voluto tranquillizzarmi, se
non mi avesse voluto dire "finchè stai con me non ti succederà nulla, non dovrai
preoccuparti né di questi sciamannati che ti stanno attorno né di nessun
altro!".
Fantasie? Probabilmente si, ma la sensazione che sia stato io oggetto di
protezione e non viceversa mi rende il ricordo di quella piccola mano nera,
stretta nella mia, ancora più dolce.
Carlo Bagnoli
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Data pubblicazione: 20/01/2002
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