Lo sai da subito che con
Jimmy Weinstein
alla batteria questo quartetto
capeggiato dal chitarrista italiano
Marco Tindiglia deve
essere qualcosa di speciale. Il chitarrista chiama il suo album "Happy
Music", eppure quando lo ascolti ti accorgi che ha una qualità
dolceamara che ti affascina, e una malinconia che quasi ti gela le ossa. In
parte è dovuto alle pigre composizioni ad andamento lento incessante, e in parte
agli arrangiamenti che prevedono un sax tenore e una chitarra in primo piano. Il
tenorsassofonista
Matt Renzi
può anche essere poco conosciuto, ma il suo sound fluido e in parte etereo si
inserisce bene nei concetti di Tindiglia. E' molto attento nel non riempire i
suoi spazi di troppe note, rimanendo fedele alle melodie, la cui leggera
spigolosità ricorda Monk.
Jimmy Weinstein
è un maestro della batteria, che discende direttamente dalla sensibile scuola
nel lignaggio di Paul Motian, e mantiene il sound del gruppo ben
equilibrato. Non tutto prende forma altrettanto bene, e ci sono un paio di pezzi
abbastanza mondani, ma qui c'è qualità sufficiente per soddisfare i curiosi.
Tindiglia evita le strade già battute, optando per melodie lievemente oblique
che rappresentano dei veicoli che si prestano egregiamente all'improvvisazione.
Sebbene non vi siano metriche o tempi eccezionalmente insoliti, il modo in cui
le melodie vengono accarezzate e scolpite, fa emergere questo gruppo dalla
folla.
**** Steven Loewy - AllMusic (trad. by
Eva Simontacchi)
Come nasce questo disco?
«Nel 1990 ero a Boston, per frequentare il Berklee College of Music e lì ho
conosciuto Jimmy Weinstein, con
il quale ho condiviso per un anno i 40 metri quadrati dell'appartamento. Da
quest'incontro è nata un'amicizia che non si è persa nel tempo: quando ho deciso
di registrare il disco l'ho subito chiamato».
E rispetto al precedente "Tindi & Altro"?
«Intanto sono passati quattro anni ed ho due figli in più. A parte questo, i
musicisti di "Happy Jazz" li sento più vicini a me: con loro è nata
l'idea di fare questo disco, di "fotografare" in musica alcuni momenti della
nostra convivenza, a Boston».
Bei tempi, quelli di Boston?
«La mia camera era diventata una sorta di sala prove. Ore passate ad ascoltare
Davis, Coltrane, Coleman, Bley, Motian».
C'è una certa vena malinconica.
«E' solo un aspetto della mia musica che sa anche essere ironica e gioiosa».
In un mondo dove tutti corrono, chitarristi compresi, lei privilegia la
lentezza e l'intensità espressiva.
«E' vero, perché prediligo lo spazio. Solo questa dimensione ti permette di
ascoltare gli altri; se suoni da forsennato e a velocità supersonica in realtà
ascolti solo te stesso».
Stesso discorso per l'ostentazione virtuosistica?
«La musica deve venire prima di tutto. Il virtuosismo fine a se stesso è tipico
di una fase adolescenziale. Io al contrario ho lavorato a lungo per imparare a
togliere anziché aggiungere».
Le sue sonorità e l'uso del "pedale" richiamano artisti come John Scofield e
Bill Frisell.
«Sono due chitarristi che apprezzo molto, anche se ad influenzarmi maggiormente
sono stati Wes Montgomery e Jim Hall, vero maestro dello spazio».
Paolo Battifora - Il Secolo XIX - 23 giugno 2001
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Data pubblicazione: 17/04/2003
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