SPAZIO SIRIN
2001
di Luigi Guicciardi
Balkan Project non è
solo un disco e un concerto. E' un evento emozionante che il Mitteleuropa
Ensemble di Fragiacomo ha regalato agli Amici del jazz il 6 novembre appena
trascorso.
Se qualcuno nutrisse ancora qualche perplessità sul jazz
scavato dall'humus dei ritmi balcanici - primo profeta Guido Manusardi con le
sue esplorazioni romene - ha perso una colossale occasione di ricredersi
ascoltando, nel bellissimo e gremitissimo
Spazio Sirin
di Via Vela, a Milano, il
Mitteleuropa
Ensemble.
Non crediamo di essere in errore qualificando la serata come
definitivo evento, anche per quelli che di fronte a una marea montante di
suoni, di accenti, e di intonazioni inconsuete, fossero rimasti scioccati, e
tuttavia conquistati, magari obtorto
collo, nell'atmosfera di tripudio popolaresco in cui si concluse il
programma. Per carità, siamo ben lontani da Goran Bregovic e dalla sua banda
piena di umori, e, quasi, di odori e di sapori, ormai nota e ricercata ovunque.
Una banda che non può non piacere e non divertire ma …. con il Mitteleuropa
Ensemble siamo in un mondo musicale raffinato proprio perché sulla trama della tradizione ha ricamato l'esperienza del
jazz. Il jazz, purchè, restando in Europa senza avventurarsi in confronti improbabili,
sia in grado di costruire, su un materiale ancora più inedito di quello
mediterraneo, un affascinante new look.
Il puntiglioso e appasionato lavoro di
scrittura, arrangiamento, e, diciamolo pure, regia di
Mario Fragiacomo e di Roberto
Favilla jr. soprattutto, ma poi anche di Furio Romano e
Roberto Della
Grotta, ha condotto al risultato di una musica piena di vita, una musica
che conserva, con le vitamine del jazz, tanto il piglio combattivo dei salmi (e
non per caso, una volta si diceva nella Messa: Domine Deus sabaoth, cioè
signore Dio degli eserciti, altro che Dio dell'Universo!) quanto la virile
malinconia dell'esilio covato nella fede della riscossa. Con l'aggiunta, per i
Balcani, dell'uragano turco-ottomano, sui cui misfatti qualcuno dovrebbe
chiedere perdono anche dall'altra parte, ma sul cui apporto culturale oggi
finalmente si dovrebbe riflettere.
La dotta presentazione del CD "Balkan Project", diffuso per
la prima volta la sera stessa del concerto, è un'autentica pagina di storia e
non solo per il lato musicale. Gianni
Morelenbaum Gualberto che l'ha scritta, citando anche gli illuminanti
understatement di Claudio Magris, che, come Fragiacomo, è cittadino di
frontiera, cioè triestino, ha toccato, con la stessa precisa minuzia che il
Mitteleuropa pone alla musica, tutti questi punti. Questa lezione di storia
arricchisce il disco e va letta.
Alle corte, veniamo al disco e al concerto. Il disco è già
attraente, da incuriosire, nella copertina, tipo Dylan Dog o quasi Rocky
Horror, che non può non colpire con i suoi tagli picassiani ringiovaniti dai
colori di attualità. L'ha disegnata la cantante Sabrina Sparti, ed è anche simbolicamente significativa: più occhi
per osservare, più bocche per esprimersi, in un volto solo multicolore. E una
bocca più grande e carnale, che può essere la femminilità dei suoni emessi dall'Autrice stessa. Suoni generalmente densi, lucidi, che
sconfinano in escursioni da lasciare senza fiato chi ascolta, ma non lei, dove non esistone più righe né segni al di
sopra del pentagramma.
La cosa più stupefacente è che ascoltando la Sparti
vengono in mente le parole con cui Enrico Rava commentava, nel CD "Mattia's Walk", l'esibizione
di Andrea Tofanelli a Barga Jazz. Un trombettista che (cito Rava) dà il meglio
di sé dal do acuto in poi con un'altra ottava e mezza a disposizione. E Rava
continua con frasi che si attagliano perfettamente alla Sparti, ottava a parte:
note reali, piene, chiare e precise come sciabolate, con un fraseggio
articolato e coerente, con assoluta padronanza delle dinamiche, con un grande
cuore e una notevolissima espressività. Scusami Enrico per il furto, ma non
avrei saputo dire, della Sparti, nulla di meglio. Con una tromba in casa di tal
fattura - poiché la Sparti è in realtà il sesto strumento del gruppo -
Fragiacomo non poteva che servirsi del flicorno, mantenendosi abilmente su toni
bassi, rotondi, profondi, quasi un trombone di lusso. Di lui non diremo altro se non l'esemplare
riserbo a conferma di un suo concetto fondamentale, e cioè che il gruppo, allo
stato attuale delle cose di musica, e di jazz specialmente, deve assumere la
veste di un unico strumento, fatto di varie voci.
Tra disco e concerto, la differenza c'è, a cominciare dalla
formazione. Assente, nel concerto, il bassista Roberto Della Grotta, sostituito
degnamente da Stefano Profeta. E
assente il Trio Raphsodija,
zingaresco come quelli che ancora nel Novecento suonavano tra le vigne
d'Ungheria a propiziare gli dei della vendemmia. Composto da Maurizio Dehò (violino) Gianpietro Marazza (fisarmonica) e Luigi Maione (chitarra). Un trio che si
scatena nel sincopatissimo
Bivacco
Tartaro, un tradizionale serbo, ma poi ricompare con accenti di malinconica
bellezza (violino) introducento
Halicha
L'Kesaria, un'aria di sapore antico
che la Sparti canta tutta in Yiddish (autore David Zahavi, sontuoso
arrangiamento di Roberto Favilla), questa volta da contralto (!), un'Ebe
Stignani, che so, una Fedora Barbieri. Nel disco, le sonorità dense di colore,
spesso sfumate, di Della Grotta, sconfinano felicemente nella melodia con l'uso
quasi costante, negli a solo, dell'arco; altrove introduce, oppure accompagna
la Sparti vagante nelle sue libere improvvisazioni.
Con il batterista Claudio Saveriano, Della Grotta fa una
sezione ritmica compatta, uscente in pieno vigore nei ritmi cadenzati, quasi
militari, tipici di questa musica così espansiva ma fieramente convinta di sé
anche negli accenti pianistici di Roberto Favilla jr. che passa, quando è solo,
dalla romanza chopiniana alla rapsodia tersicorea che opportunamente
sintetizza. Mancando Della Grotta qualche cosa si è perduto nel concerto, in
colori e fantasia, nulla invece in supporto ritmico grazie al suo sostituto.
Ovviamente non c'era il tempo per eseguire tutti i pezzi del disco. Infatti
Fragiacomo, dopo il turbinoso
Ashkenazim
Time d'esordio, quasi un compendio di tutti gli stili balcanici, turchi,
bulgari romeni, serbi ed ebraici, ha preferito inserire
Youkali
di Kurt Weill. Era anche fuori disco la vivacissima e
burlesca tiritera recitante della Sparti in
Dem
Ganefs Yiches,
ossia l'albero genealogico del ladro -
facilmente immaginabile - con uno sviluppo festosissimo nel canto e nei
collettivi, così come nel felice
Wen Der
Rebbe, un tradizionale Klezmer che ha concluso il concerto, mandando via
tutti sollevati e contenti dopo una giornata presumibilmente pesante (sembra un
componimento da scuola elementare 1930, però questo scrivere d'antan è un bel
conforto nostro personale).
Una nota a parte, per quanto si è ascoltato sia nel disco
sia nel concerto, meritano Furio Romano e alcuni gioiellini musicali in
particolare, il cui merito è attribuibile a tutti. La gamma di suoni emessi dal
sax alto di Romano è molto vasta, da certe morbidezze a canto disteso che sono
quasi da tenore, al fraseggio serrato, trilli prolungati compresi, note
smozzicate, raramente fischianti e raschianti, quando vuole incalzare se stesso
nel ritmo per poi lanciare il successivo solista. Ma soprattutto c'è l'animus,
cioè la comprensione e l'adesione a quello che il complesso intende esprimere
con la sua vitalità. Beograd
è un
pezzo molto bello, di Romano e Favilla jr. che inizia con dissonanze come per
annunciare il chiacchierio naturalistico della Sparti, che riprende le voci del
bosco, modulazioni di merli, cince e altri animali portatori di incanti
impagabili, vicini alla coloritura; e nel
Taumaturgo,
pure di Furio Romano, anche il cucù.
Beograd
è un blues, in cui su una splendida ritmica fraseggia imperioso il piano di
Favilla; e lo stesso clima ritroviamo nel successivo
Balaton Tango, che è del pianista stesso, a rammentare il mesto
aspetto romantico del grande lago ungherese: qui c'è anche aria da vecchio
Impero, con i turbamenti del giovane Toeress (Musil).
Hok Experimental Hora, di Fragiacomo, inizia con una dolcissima
sequenza cadenzata di batteria e basso (arco) in cui l'Autore accompagna calmo
e commosso le invenzioni incredibili - cabrate e picchiate folli con suoni di
cristallo - della cantante. La Sparti smorza infine l'acrobazia con accenti che
sembrano venire da misteriose grotte caucasiche, quasi uno spiritual slavo, e
chiude con quattro note picchiettate pressoché sottovoce. Il miracolo si ripete nel tema di estrema
bellezza Halicha l'Kesaria
(David
Zahavi, arrangiato da Favilla), già citato all'inizio della recensione. La
dizione è fervida, appassionata, e così pure gli accenti de Della Grotta con
l'arco, quasi un lied di Musorgskij; il piano fluisce con note meditate ma
forti. Tra parentesi, lo Steinway & Sons suonato nell'occasione
contribuisce, eccome.
Ho scritto praticamente nello spazio di un elzeviro, però si
trattava di un concerto e di un disco, e comunque questo disco e questo
concerto, a mio avviso, sono assai di più: sono un evento.
Luigi Guicciardi
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Data pubblicazione: 21/04/2002
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