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Mitteleuropa Ensemble
Balkan Project

1. Ashkenazim Time
2. Dionisius
3. Beograd
4. Balaton Tango
5. Camilla
6. Zhok Experimental Hora
7. Ale brider
8. Bivacco Tartaro
9. Halicha L'Kesaria
10. Il Taumaturgo


Claudio Saveriano
batteria
Roberto Della Grotta
contrabbasso
Furio Romano
alto sax
Mario Fragiacomo
flugelhorn
Roberto Favilla jr.
piano
Sabrina Sparti
vocal



http://www.ejn.it/mus/mitteleuropa.htm
http://stage.vitaminic.it/mitteleuropa_ensemble

"L'Asia inizia in Landstrasse", commentava Metternich nel 1820, ironizzando sulla estesa via imperiale che dalla capitale austriaca conduceva in Ungheria. Egli probabilmente avrebbe condiviso l'opinione dell'Arciduca Franz Ferdinand (il cui assassinio, a Sarajevo, avrebbe innescato la Prima Guerra Mondiale), il quale sosteneva che il fatto che gli Ungheresi appartenessero all'Europa era "una prova di cattivo gusto". D'altronde, nel 1995, nel pieno del conflitto balcanico che aveva lacerato l'ex-Jugoslavia, un corrispondente di un noto quotidiano europeo, scrivendo di Zagabria, esprimeva meraviglia per il fatto che la città fosse "più europea che balcanica", ribadendo una concezione curiosamente comune, e cioè che in qualche modo i Balcani possano essere radicalmente estranei all'Europa. La conoscenza di quella complessa e variegata area geografica e culturale, d'altronde, implica automaticamente una nuova conoscenza della cultura europea, soprattutto se si considera quell'estensione - abitualmente definita Zwischenländer, le terre di mezzo - che si estende dalla Grecia alla Finlandia,  che viene ulteriormente definita dalla Germania e dall'Italia centrali, e che non può definirsi interamente né orientale né occidentale. L'Ungheria può studiarsi con l'Austria o solo con gli stati balcanici? Si studia solo l'influenza asburgica o quella orientale? Troppo genericamente si parla di Est europeo, e questa genericità si è poi accentuata durante il periodo della Cortina di Ferro. 

Nei Balcani, tanto per citare un esempio, sono presenti tutte e tre le religioni monoteiste nelle loro più varie espressioni, così come un vasto spettro culturale, si parli di cultura romanza, germanica, slava o islamica o ebraica; si usa l'alfabeto cirillico come quello romano, ma anche quello arabo e quello ebraico sono variamente presenti. E' l'"alterità" dei Balcani a colpire inusitatamente, ed essa è stata spesso trattata nell'ottica di quell'Orientalismo di cui parla Edward Said, un sistema che pone l'occidentale in una serie di molteplici possibili relazioni con l'Oriente, ed in cui egli comunque detiene un predominio. In base a questa semplificazione, si agisce per estremi: l'Occidente è razionale, l'Oriente è mistico, l'Oriente è esotico l'Occidente è normale, l'Oriente è arretrato, l'Occidente è progredito per definizione. L'Oriente viene così avvertito come qualcosa di abnorme, inferiore, alieno. Lo stesso avviene per i Balcani (Bismarck affermava che essi non valevano le ossa di un solo fante della Pomerania). Ciò nonostante, applicare a queste realtà delle categorizzazioni occidentali non è corretto. I recenti conflitti balcanici hanno comunque dimostrato che certe crisi sono, per gli Europei, non meno insondabili e frustranti ai nostri giorni che nel 1875 o nel 1893. E forse questo è il destino delle terre di frontiera, limpide quanto misteriose, impermeabili forse agli strumenti della logica comune, ma permeabilissime a tutte le possibili influenze.

E' curioso notare come spesso si trascuri (ma recenti episodi bellici ce lo hanno tristemente ricordato) che l'Italia lambisce cospicuamente le complesse realtà balcaniche e che, ad esempio, Trieste è una realtà complessamente "di frontiera", stretta nell'abbraccio fra il passato mitteleuropeo e quello più strettamente balcanico. Si dimentica, salvo che nel subitaneo risveglio che ci impongono drammatici fatti di cronaca bellica o quotidiana, che una vasta estensione delle coste italiane si affaccia sull'Albania (la cui influenza culturale e linguistica ha da lungo tempo permeato alcune delle nostre regioni) e sulle aree che un tempo costituivano il complesso puzzle etnico dell'ex-Repubblica Jugoslava, tasselli del costante rapporto storico che la nostra penisola ha intrattenuto e intrattiene anche con il vicino Oriente.

Pur in un contesto irridentemente ironico, Metternich esprimeva una complessa verità: per quanto l'impero asburgico avesse inglobato parte delle aree balcaniche, assimilandole a quel coacervo di nozioni politiche e culturali che va sotto il nome di Mitteleuropa, una ben cospicua parte degli stessi Balcani, dalla Bosnia alla Grecia, pur tra molteplici conflittualità, ebbe a relazionarsi con un'altra composita realtà come quella dell'impero ottomano (con tutto ciò che ne poteva conseguire). Non è forse possibile – difatti - comprendere neppure parzialmente la cultura balcanica se non si conoscono alcuni lineamenti di storia ottomana e altri della storia dell'impero asburgico. Le due entità sono di regola presentate come contrapposte, nella schematica semplificazione dello scontro fra la civiltà cristiana e quella islamica, fra quella occidentale e quella orientale. Dicotomie che ben raramente spiegano la caleidoscopica realtà dei fatti.

I turchi, che a lungo hanno predominato nei Balcani, sono islamici, ma non arabi (ciò andrebbe più spesso ricordato, a quanto pare, nella generalizzazione che spesso si attua nei confronti dell'Islam). Per capire le complicanze, anche culturali, insite nell'area balcanica, non può dimenticarsi che la potenza ottomana cominciò a penetrarvi fin, all'incirca, dal 1345, occupandola poi progressivamente con la sconfitta serba nel Kosovo e con le campagne militari - nei primi decenni del 1500 - di Solimano il Magnifico, che si conclusero con l'occupazione della Moldavia e della Bessarabia (ricordiamoci che i turchi, nel 1529, arrivarono alle porte di Vienna).  La presenza  ottomana nei Balcani arriva sino al XX secolo (fino al 1923, con il crollo definitivo, per l'appunto, dell'impero turco); ciò nonostante, va ricordato che essa fu ben di rado intollerante, soprattutto nei confronti di altre fedi religiose: ciò facilitò una serie di commistioni anche culturali, la cui traccia è evidente. E' ben probabile che pure nelle aree balcaniche si conoscesse l'opera di musicisti come Baki, Fuzuli, Nedim and Nef'i, così come ancora oggi – laddove il retaggio islamico è fortemente presente - vi si applicano le regole del maqam e quel tipo di pratica improvvisativa denominata taksim. Il tipico metro irregolare turco, l'aksak, si fonde alla disparità ritmica prediletta dai confinanti popoli slavi (pensiamo, ad esempio, al cocek [3+3+2] dei Rom, ma anche alla ricchezza ritmica delle aree macedoni), e nel proliferare di gruppi di ottoni emergono le influenze della rigogliosa tradizione musicale militare ottomana, così come quelle dell'impero austro-ungarico. Le un tempo fiorenti comunità ebraiche costituivano, a loro volta, una sorta di ampio raccordo fra tutte queste influenze, che a loro volta venivano a fondersi nella non meno ricca e complessa tradizione ashkenazita e a quella degli ebrei che, numerosi, operavano nell'impero ottomano (spesso come celebrati musicisti di corte, in centri come Istanbul, Edirne, Salonicco e Izmir, là dove si diffondevano i popolarissimi lavori di Yahudi Yako, noto esecutore al miskalî, sorta di flauto di Pan; del tanburî  Yahudi Kara Kash, apprezzato, per l'appunto, per la sua abilità nell'uso del tanbur, tipico strumento a corde; di compositori come Çelebiko, insegnante del famoso principe Cantemir, Moshe Faro [conosciuto anche come Musi o Tanburî Hakham Mushe presso la corte del sultano Mahmud I], Aharon Hamon [conosciuto anche come Yahudi Harun] e Isaac Fresco Romano [conosciuto anche sotto il nome di Tanburî Ishaq]), e collegati sia alle culture mediorientali che a quelle della vicina Grecia (certe tipiche danze greche, come l'hasapikos, l'hasaposervikos e lo zeimbekikos offrono un quadro ben chiaro delle molteplici connessioni esistenti con l'Asia Minore), porta d'accesso, come la Turchia, per quelle tipiche ornamentazioni derivate dalle tradizioni del canto bizantino.

E' ben raro poter osservare un fenomeno così ricco di sentieri che s'incrociano e si sovrappongono: nei Balcani è possibile osservare uno spettro pressoché completo delle influenze culturali presenti in Europa. E tale spettro è ben presente nel lavoro del Mitteleuropa Ensemble che, come dice lo stesso nome, a tali realtà è stato sempre ben attento. Realtà che hanno influenzato anche una parte della cultura italiana che purtroppo è stata spesso negletta sotto questo punto di vista.

Balkan Project è una raccolta di microviaggi (si ascolti lo stralunato, volutamente sbilenco "Balaton Tango" che pure, nella sua apparente astrazione, riporta molteplici echi, brandelli, lacerti di melodie di un lontano Titanic di emigrati, smarrito nelle nebbie della nostra memoria), che forse può ben trovare un corrispettivo letterario in un affascinante lavoro di Claudio Magris come Microcosmi. Movimenti attraverso paesaggi, ambienti che potrebbero apparire trascurabili senza il vivace e pronto apporto dell'intelligenza e della sensibilità di una mente pronta a recepire i particolari: molteplici fattori di causa e di effetto che possono rendere peculiare e irripetibile l'esperienza più banale, come le sfaccettature di un prisma. Nel momento in cui la follia autodistruttiva violenta il nostro mondo e ridisegna i confini, Mario Fragiacomo,  animatore del Mitteleuropa Ensemble, da triestino e quindi uomo di confine contrappone alla furia omicida (che ancora oggi squassa anche quei Balcani cui fanno inequivocabile riferimento questo sofisticato ed espressivo lavoro musicale: Svit se konca, "il mondo sta per finire",  già scriveva nel XIV secolo un asceta riformatore glagolitico croato, "il mondo sta per finire, il sole declina,/E incalza l'oscurità mentre la giustizia svanisce e l'amore si ripiega") un'opera pacifica (per quanto complessa e suscettibile di molteplici letture) ricolma di memorie, di esempli di grande civiltà culturale, al di qua e al di là del confine, qualunque nozione tale termine comporti: etnia, religione o geografia. Per parafrasare ancora Magris, fra ogni nota pronunciata, si apre un infinito.

"Ogni viaggio è soprattutto un ritorno, anche se il ritorno quasi sempre dura assai poco e viene presto l'ora di andarsene".  E Magris rievoca le partite a cotecio, un gioco veneto, non tedesco, giocato "nella Stube dell'albergo Herberhof di Antholz Mittertal..." in cui perde chi prende più carte e che filosoficamente e metaforicamente rievoca il percorso dell'esistenza (a meno che non si riesca a prendere proprio tutto e fare "cappotto"). Una scena che - è stato fatto notare - potrebbe svolgersi su un piatto di ceramica Meissen.  "Viaggiare, come raccontare - come vivere - è tralasciare. Un mero caso porta a una riva e perde un'altra". Un'affermazione applicabile alle situazioni più innocue come a quelle più drammatiche o tragiche. Quelle di chi vive su una riva volendosi trasportare su quella opposta, quando ambedue sono divise da un confine insuperabile. Cose che sa bene chi vive su una terra che è da sempre contesa tra Nord e Sud, tra Oriente e Occidente, fra Islam e Cristianità (ma non solo), crocevia di etnie e di popoli, spesso a pochi passi dall'inferno o dalla catastrofe. Il racconto del tempo presente si avvinghia alla descrizione di eventi storici, perché ogni luogo, se lo si sa studiare con attenzione, è imbevuto della storia del suo popolo tanto quanto di quella individuale dei suoi attuali abitanti: "i luoghi sono gomitoli del tempo che si è avvolto su se stesso. Scrivere è dipanare questi fili, disfare come Penelope il tessuto della Storia".

Il Mitteleuropa Ensemble pratica anche l'improvvisazione (nozione certo non sconosciuta nei Balcani), mediata però attraverso  il mezzo improvvisativo che la tradizione africana-americana ha diffuso grazie all'articolazione del jazz (non stupisce perciò l'apparizione del blues, canto di universale sofferenza per definizione, in una pagina come "Beograd"). Balkan Project, se vogliamo, realizza con raffinata opera di pensiero la versione moderna, cosmopolita, volutamente instabile, di quelle orchestre popolari che nei Balcani hanno sempre provveduto alla diffusione musicale nei piccoli centri. Anche qui troviamo delle assonanze, perché se nella Germania del 1800 i piccoli gruppi orchestrali popolari o di ottoni venivano denominati kapelle, ecco che questo termine si trasforma in yiddish in "kapell" o "kapelyie", mentre fra la popolazione Rom, diffusa in tutti i Balcani e musicalmente estremamente presente, esso si adatta in kapelnik. Dalla Serbia alla Macedonia, i gruppi di ottoni appartengono a una tradizione creativa particolarmente accentuata, che prende l'avvio proprio dalle bande militari presenti nella tradizione ottomana, e che sostituirono, a partire dal 1828, le formazioni mehterhane dei giannizzeri, contribuendo anche alla progressiva scomparsa dell'antico oboe tradizionale (zurna, zurla o mizmar, ancora oggi comune in Serbia) e degli strumenti a percussione. Così, se nelle kapelyie ashkenazite si incontrano strumenti come il clarinetto e il violino, in quelle più tipicamente balcaniche si incontrano la tromba (trompeta), la cornetta (korneta), il sassofono (saksafon), che si alternano con il clarinetto (klarinet), la tuba, la fisarmonica (armonika) e il tamburo (tapan) o il darabuka. Anzi, proprio i Rom mantengono i maggiori legami con quella Turchia da cui cominciarono a emigrare sin dal XIV secolo, e preservano anche le tecniche di respirazione circolare che erano patrimonio dei suonatori di oboe. Altresì, temi più appassionati e romantici ricevono in turco il nome di gazel, derivato dal termine arabo ghazal, laddove la bellezza muliebre è paragonata a quella della gazzella nel deserto. Gli stessi temi sono denominati, rispettivamente, in macedone e in serbo, sevdak e sevdalinka, ma il concetto non è diverso, in quanto trattasi di termini che derivano dal turco sevda, che significa – non casualmente - passione o amore. In poche parole: che gli stili balcanici siano Turska (turchi), Romska (Rom), Bulgarska (bulgari), Romanska (romeni) o Srpska (serbi), sono evidenti la molteplice contaminazione a più livelli e - allo stesso tempo - una forte, radicata identificazione etnica.

Balkan Project esplora queste numerose, caleidoscopiche diversità, e come un viaggiatore sensibile, curioso, culturalmente partecipe, ne abbozza con vivida intelligenza una serie di attenti, vibratili ritratti non oleografici. Non casualmente, l'intero lavoro si basa su una cospicua messe di materiali musicali che, per quanto di diversa estrazione, sono attraversati da una comunanza poetica e di intenti espressivi. Ciò è evidente sin dalla prima pagina, Ashkenazim Time che, come suggerisce il titolo, rilegge un'antica melodia della tradizione ebraica dell'Europa orientale: nel recupero del canto sinagogale, di quella lamentazione che, spiritualmente, è così affine al blues, si snoda un canto che nell'eco arcano ascende misticamente, disegnando brevi volute ornamentali, prima di svilupparsi con una marcata accentuazione ritmica.

L'asimmetrica danza (lake, veloce, come impone la tradizione macedone, alla quale la pagina si richiama) di "Dionisius" (che, non casualmente, evoca anche l'estasi frenetica delle danze chassidiche, che anche in questo humus si sono sviluppate) permette al Mitteleuropa Ensemble di agire come una calgija, quei tipici gruppi strumentali macedoni che diffondono la tradizione popolare utilizzando strumenti occidentali come il violino (che sostituisce la gusla a tre corde, affine alla gadulka bulgara). Ed è ancora il sottile gioco di echi e rimandi della memoria a rievocare – pur attraverso la mediazione di innumerevoli altre esperienze musicali - le immagini di quei piccoli gruppi di musicisti ambulanti delle più diverse etnìe che peregrinavano attraverso tutti i Balcani predicando un verbo musicale di straordinaria ricchezza: ne scaturisce "Zhok Experimental Hora", una Hora (spesso conosciuta anche come doina), meglio una sorta di hora lunga (un genere che, per quanto comune in Romania, è diffuso in varie forme in tutti i Balcani, trova echi nel dumy ucraino e non è certo estraneo a certi modi del maqamat arabico), in cui il vocalizzo si sovrappone al canto e a un'articolazione semi-parlata (di gran pregio l'intervento di Sabrina Sparti), che Fragiacomo riprende abilmente al flicorno, creando un dialogo fatto – per l'appunto - di echi, in cui si delinea una capacità evocativa a grandi spazi che occupa una struttura pressoché scheletrica, ricca di interiezioni non-semantiche, di linee non modulate, di acuti suoni glottali, di libera ed emozionante oratoria; né va disconosciuta (altro eco della memoria…), in questo caso, l'importanza che la declamatoria cantillazione ebraica esercitava nel suo rapporto stretto con pratiche esecutive metricamente libere: l'hora o la doina appartengono per tradizione al repertorio dei klezmorim, cioè di quei musicisti ambulanti ebrei che nell'Europa orientale, assieme ai gruppi zingari, diffondevano la musica a livello popolare, anche fra le comunità cristiane. Non casualmente, interpretazioni di tali lavori sono riscontrabili in numerose realizzazioni di gruppi klezmer americani agli inizi del XX secolo, e non va dimenticato che lo stesso genere musicale è stato adottato dal folklore israeliano, grazie all'influenza culturale esercitata dalle comunità di emigrati provenienti dall'Est europeo. Il viaggio, insomma, porta lontano, o meglio riporta alle fonti geografiche originarie, in un'affascinante circolarità. Ed è interessante notare come, in tale visione culturale priva di confini, l'inclusione di una pagina di grande bellezza musicale, ma anche di notevole significato ideale, come l'ebraica "Ale Brider (Ale Shvester)" ("Un mir zaynen ale brider, oy, oy ale brider/Un mir zingen freylekhe lider, oy, oy, oy./Un mir halten zikh in eynem, oy, oy,/ zikh in eyenem,/Azelkhes iz nito bay keynem, oy, oy, oy!/Un mir zaynen ale eynik, oy, oy, ale eynik,/Tsi mir zaynen fil tsi veynik oy oy, oy./Un mir libn zikh dokh ale, oy, oy,/zikh dokh ale,/Vi a klosn mit a kale, oy, oy, oy!/Un mir zaynen freylekh munter, oy, oy,/freylekh munter,/Zingen lider, tantsn unter, oy, oy, oy./Un mir zaynen ale shvester, oy oy,/ale shvester,/Azoy vi Rokhl, Rus, un Ester, oy, oy, oy!")  sembri esercitare un ruolo di raccordo spirituale. Tale melodia, infatti, è l'adattamento di un poema di Morris Winchevsky ("Un mir davnen fun eyn sider...Frum un link fareynikt ale...vi der khumesh mit di rashi, vi der kugl mit di kashe..."), ed era popolarissima, con il suo messaggio di universale fratellanza, fra gli aderenti al Bund (un movimento politico di chiara impronta socialista, con radici in Polonia e Russia. Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari russi del 1905, esso seppe rappresentare con estrema efficacia le istanze politiche e culturali dell'ebraismo. Radicato nella realtà di una classe lavoratrice proletaria, esso rappresentò il sogno di una nuova società, in cui la concretizzazione di ideali sindacali si sposava alla realizzazione di una cultura yiddish estremamente laica. Come si cantava allora: "Sì, per il pane lottiamo/ma anche per le rose").

Balkan Project, pur nella sua ricchezza di intelligenti e notevoli materiali originali (si considerino pagine estremamente notevoli come Camilla o Il Taumaturgo) è, come già detto, soprattutto appassionante taccuino di viaggi, che pone innovativamente gli strumenti dell'improvvisazione - come una sorta di occhio vigile e curioso - al servizio di una rilettura che è anche inquieta indagine interiore, ricerca e ricognizione della propria identità. Gli interrogativi che esso ci pone – con malinconico e poetico senso di meraviglia - sono forse gli stessi che ci poniamo ogni giorno: "Chi siamo?", "Dove andiamo?", "Da dove veniamo?", "A chi apparteniamo?"

Come ha scritto un'anonima poetessa serba in una pagina lanciata attraverso i non meno estesi e sconvolgenti spazi di Internet: Io sono il mio passato/e i sogni del mio futuro./Tutto ciò che ero,/lo sono oggi./Ciò che qui mi ha condotto/era allora il futuro/e ciò che adesso sento/presto sarà il passato./Vi è altro in me/oltre alla speranza/che nel domani/ attende dolente/ciò che ho perso ieri?/Questi sono i momenti/che diventano passato/quando la mente si duole/per le cose non fatte.

Gianni M. Gualberto

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Data pubblicazione: 29/09/2001





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