Gonzalo Rubalcaba piano solo
Auditorium Parco della Musica -
27 gennaio 2011 ore 21, Sala Sinopoli di Daniela Floris foto di Daniela Crevena
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Gonzalo Rubalcaba è uno di quegli artisti di cui si può delineare un vero
e proprio percorso poetico negli anni. Un percorso graduale, segno di una musicalità
sempre in divenire, di una ricerca individuale che, però, non ha come fine il "venire
a patti" tra l'essere cubano e l'essere jazzista in senso stretto. Non tende un
volontario e strategico superamento della componente "latin", ma piuttosto sembra
parlare di uno studio espressivo scaturito dalla necessità vera e propria
di estrapolare dal pianoforte un linguaggio sempre più vicino alla propria evoluzione
interiore e poetica.
Così all' Auditorium Parco della Musica è salito sul palco un Rubalcaba ancora diverso
da quello che il suo pubblico affezionatissimo si era appena - probabilmente - abituato
ad ascoltare: tracce melodiche appena riconoscibili, armonie dissonanti o sottintese,
volumi tenui, accordi atonali o ostinati alla mano sinistra e affascinanti e ricchi
ricami della mano destra che racchiudono nascosti temi di standard molto noti (come
"El Manisero") ma appena percettibili.
Un concerto, bisogna dirlo subito, non facile,
per nulla didascalico o rassicurante, perchè tutto teso ad un nuovo linguaggio,
nel quale il Rubalcaba di ieri non è totalmente scardinato, piuttosto tenuto fortemente
in piedi come "impalcatura", "scheletro" di un corpo musicale che cambia. Così il
pubblico ha assistito ad un concerto "meditativo", in cui o ci si concentrava molto
per cercare di ricostruire il sottinteso, o ci si lasciava andare senza condizionamenti
ad una sonorità nuova, godendosela fino in fondo. Ne è scaturita una musica
profondamente espressiva, proprio perchè non facile, a tratti persino criptica,
se vogliamo, ma tutt'altro che forzatamente "intellettualistica" come ultimamente
sempre più spesso capita di ascoltare in progetti musicali resi superficialmente
ed esteriormente difficili per avvalorarne un presunto "alto livello artistico".
Rubalcaba con il suo piano solo ha fatto un lavoro di limatura e di sfrondamento
di ogni orpello melodico armonico, procedendo con frasi spezzate, evocative, a tratti
astratte, con accordi che, se presi nella loro interezza tonale, sono durati pochi
secondi, giusto per agganciare l'attenzione, e poi si sono dileguati in tocchi anche
virtuosistici, ma certo non tesi a stupire. Ha destrutturato lasciando solo le tracce
della originaria orecchiabilità dei brani, ma riavvicinandosi talvolta con accenni
poetici ad un tocco cubano che, come si diceva, non e' stato affatto totalmente
dimenticato. A volte gli incipit sono sembrati piccole danze settecentesche o mozartiane,
le mani sulla tastiera hanno accennato ma non descritto, dando rapide concise ma
indicative spennellate e la sensazione e' stata quella di partecipare, come pubblico,
attivamente a quella musica, perchè da quelle spennellate chi ascolta deve ricostruire
da sè un'impressionistica immagine sonora.
Rubalcaba dunque ha lasciato poco spazio
ad una emotività scoperta o smaccata, non ha concesso un rilassante viaggio nel
latin-jazz, o nel jazz, ma ha portato il pubblico a fare un passo ulteriore verso
una sonorità evoluta eppure davvero molto, molto emozionante.