A tre anni dal riuscitissimo "New Thing",
Wu Ming 1 ritorna a parlare di free jazz con questo interessante disco- libro
pubblicato da Abraxas/Goodfellas, che riprende alcuni argomenti del primo (soprattutto
il legame fra free jazz e movimenti sociali degli anni 60) e ne propone altri.
Il disco è una antologia, curata dallo scrittore, del catalogo ESp. Una
casa discografica ultra-indie di New York che dette asilo musicale negli anni 60
all' avanguardia jazzistica più radicale. Albert Ayler, Sun Ra,
Sunny Murray, lo stesso
Ornette
Coleman, il mitico Giuseppi Logan (sparito nel nulla, ancora
oggi nessuno sa che fine abbia fatto) incisero con questa label. Ma nel catalogo,
e nel sampler di cui stiamo parlando, si trovano anche nomi come quelli di Gary
Peacock o
Eddie Gomez. Il curatore ha anche inserito nei due cd che compongono
l'antologia brani di discorsi di Martin Luher King, di Malcom X e
frammenti sonori di raduni dei gruppi radicali afro- americani degli anni 60. Un
operazione di grande impatto emotivo che riprende e ricorda quella di
Charlie Haden nel suo ineguagliabile "Liberation music orchestra".
Il contrabbassista utilizzò allora (1970) brani
di canzoni della guerra civile di Spagna, attingendo a registrazioni d' epoca, mixandoli
con le magmatiche sonorità del suo gruppo.
Il libro, di semplice e raffinata eleganza grafica, offre la presentazione
di Wu Ming 1 sia in inglese che in Italiano. I due testi sono separati da
una lunga sezione fotografica in b-n. All' inizio una prefazione breve ma densissima
di Pino Saulo.
Va subito detto che l'opera non è rivolta ad un pubblico di jazzofili.
Scopo dichiarato dell'operazione di Wu Ming è quello di parlare ad un mondo giovanile
legato all' Hip-Hop e ad altre correnti musicali "antagoniste". Un'operazione "diretta
a colpire in positivo chi il jazz non lo conosce, ne ha un idea stereotipata, ma
di certo gradirebbe certe timbriche acide e sommosse iconoclaste se qualcuno gliele
mettesse a tradimento nell'Ipod". In poche, splendide, pagine cerca di dimostrare
come certa espressività musicale alternativa trovi le sue radici proprio nella furia
della new thing. Chi scrive queste note non è in grado per gusti musicali consolidati
e per anagrafe di stabilire la attendibilità di questa affermazione. Ma spera che
sia vera. Se il jazz di quegli anni, trasgressivo ed iconoclasta avesse lasciato
tracce anche inconsapevoli in altre musiche, se avesse fatto nascere da radici profonde
"piante cresciute e spuntate fra le crepe dell'asfalto" non ci sarebbe che
da rallegrarsi.
Il jazz è, dovrebbe essere, musica contaminata e contaminante. Viva.
Date queste premesse "The old new thing" rimane interessante anche
per chi con il jazz ha familiarità e consuetudine. In questi ultimi mesi il dibattito
sul free si è riaperto e non poteva essere diversamente dal momento che è stata
l' ultima vera innovazione nella storia della musica afro americana. Una musica
che oggi è quantitativamente e qualitativamente vitale ma stenta a trovare nuove
strade. Riproporre, anche in pillole, Ayler e Giuseppi Logan è utile
ed importante. Oltre che ad un pubblico "antagonista" potrebbe far bene anche a
tanti giovani jazzisti che continuano a produrre musica educata e perfettina, tiepida,
senza rischi e trasgressioni. Sembra infatti che ad utilizzare creativamente e criticamente
la lezione della new thing, siano oggi solo musicisti non più giovanissimi, come
quelli che compongono la grande Instabile.
Un effetto secondario di questo libro è stato, per chi scrive, quello
di riandare con la memoria alla vicenda musicale ed umana dei blue notes;
quel gruppo multirazziale sudafricano che utilizzò il nuovo jazz per reinterpretare
la tradizione musicale profonda della sua terra. Di loro ci sono poche tracce discografiche
(un'antologia di "Musica jazz" del 1997). Le
incisioni Ogun che dovrebbero testimoniare la loro arte sembrano sparite. La loro
storia fu bellissima e triste: esilio, amicizie fraterne, morti precoci piante in
strazianti e semi perdute sessions. Ci sarà un Wu Ming, un "griot" che vorrà
scrivere questa storia? Qualche label che avrà il coraggio di riproporre una musica
che, come dice Luigi Onori nel capitolo a loro dedicato in "Il Jazz e
l'Africa", rendeva comunicativo anche il free?
Marco Buttafuoco per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 07/08/2007
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