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Murakami Haruki, Wada Makoto
Ritratti in Jazz
Einaudi 2013
Pagine 239 – euro 19, 50
Cesare Segre, filologo e raffinato teorico della letteratura italiana, critico
militante del Corriere della Sera nel marzo 2007, proprio da quelle colonne, scrisse
del libro "La vita in comune" di Letizia Muratori, partendo così: "è una
storia d'amore? Esplicitamente no; sì invece, quando ci si familiarizzi con i personaggi,
e li si capisca meglio". Le solipsistiche questioni di Segre fanno capolino
anche in "Ritratti in jazz": è una summa, vibratamente personale, del jazz
di "casa Haruki"? Sì e no. Sì, perché i musicisti di cui si parla sono amati (non
sempre e tutti) dallo scrittore; no, perché il filo rosso lo fanno le opere visive
di Wada Makoto, che qui occupano una pagina ogni quattro, con assoluta sistematicità:
cinquantacinque per l'esattezza, tante quanto i musicisti schedati.
Murakami Haruki è penna famosa e celebrato in mezzo mondo, soprattutto per il trittico
"IQ84". Dietro (o prima de) lo scrittore giapponese c'è una vita passata
a dirigere un jazz bar. Wada Makoto è un artista di vaglia, prossimo ai settantotto
anni, e anche lui il jazz lo ha respirato a pieni polmoni.
La storia va così: Makoto prepara un paio di mostre a tema (Jazz e Jazz 2) e le
tavole finiscono tra le mani di Haruki che, per sua stessa ammissione, trova "faticoso
scrivere di jazz"; ma sui ritratti dei musicisti di Makoto decide di farlo.
E un po' di affanno s'avvede, perché il risultato ottenuto è parecchio simile a
un'autobiografia dell'universo jazzistico stabilitosi a casa dello scrittore nipponico.
Lo scritto è ad alta gradazione alcolica, perché si versano fiumi di whisky, bourbon,
gin, vodka e quant'altro, più o meno per ogni scheda: un Bukowski del jazz, insomma.
Haruki alterna colpi di genio, come nell'episodio dedicato a Fats Waller, dove incornicia
nella stessa tela il solo di Ray Manzarek dei Doors in "Light My Fire" con
"Jitterbug Waltz" del pianista e organista di New York, a critiche pungenti
quanto un porcospino spaventato allorquando discetta di Jack Teagarden e della passione
svanita per quel jazz, in favore del "tanto fervore per ascoltare gente come
Keith Jarrett,
tanto varrebbe…ma non è quello che volevo dire adesso". Ammazza da subito Cannonball
Adderley, perché "non era capace di suonare quel genere di musica fatale che
riesce a scuotere dalla radice il nucleo esistenziale di chi lo ascolta". E
sfiorisce il fascino di Ella Fitzgerald e di Oscar Peterson con una rasoiata degna
di Jack Lo Squartatore: "ogni tanto nella loro arte c'è troppa maestria. Sono
bravissimi, d'accordo, ma la cosa finisce lì, non trasmettono a chi ascolta quell'elemento
oscuro che non può mancare nell'animo di ogni essere umano". Molti sono coloro
i quali si meritano la sua corona d'alloro; per altri la sua stessa critica appare
confusa, come nella carambola di parole su Teddy Wilson. Però, per tutti ha una
parola buona, una lode, in alcuni casi quasi sottintesa, come per
Herbie
Hancock, letteralmente demolito a colpi di maglio o per Tony Bennett del
quale dice: "il suo stile è molto diverso da quello di Sinatra, ma in pratica
di cantanti davvero in gamba, Sinatra a parte, c'era solo lui".
Forse dice delle verità, idee che serpeggiano, mozziconi di parole che nessuno vuole
dire. Forse eccede in sofismi musicali, camminando a inciamponi nella lettura dei
singoli dischi – appartenenti alla sua collezione – che accompagnano ogni anamnesi
del musicista. Non è anodino, anzi: di carattere ne ha messo tanto, anche un po'
a casaccio.
E' la chiave di lettura, l'approccio e l'identità dell'autore che lo rendono vaporoso
e c'è il rischio che possa cadere in una libreria polverosa, senza uno scaffale
definito.
Alceste Ayroldi per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 15/02/2014
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