23 aprile 1967, città di New York, Centro di Cultura Africana Olatunji.
Data e luogo più che mai significativi per John Coltrane, all'epoca
vera stella del firmamento jazz, nonché uno dei musicisti simbolo del
free, movimento al quale aveva già consegnato un «manifesto» con lo
straordinario
Ascension, e che dopo la sua morte (avvenuta
improvvisa il 17 luglio di quello stesso anno) comincerà a dissolversi.
L'Olatunji Center
- struttura fondata dal percussionista nigeriano Babatunde Olatunji
-
era sorto da poco meno di un mese, fortemente voluto dallo stesso Coltrane,
il quale peraltro lo finanziò generosamente. Ed è proprio quel centro il luogo
dove Trane e soci tennero l'ultimo concerto immortalato su nastro (pare sia
stato lo stesso sassofonista a chiedere di registrare l'esibizione).
Sul
palco, il quintetto che da più di un anno lo accompagnava regolarmente (con
lui, Alice Coltrane al piano, Pharoah Sanders al sax tenore, Jimmy Garrison
al
contrabbasso, e Rashied Alì alla batteria) per l'occasione affiancato da una
coppia di percussionisti: Algie DeWitt (al batà, tamburo africano
usato nei riti vudù) e, probabilmente, Jumma Santos.
Due sole le composizioni
proposte. Anzitutto
Ogunde
- liberamente ispirata al tradizionale
afrobrasiliano Ogunde varere -, già incisa in studio da Coltrane, in
quartetto, poco più di un mese prima (è rintracciabile in
Expression);
poi, My Favorite Things, il valzer di Rodgers e Hammerstein II che
gli aveva fruttato grande popolarità nel '60 e che da allora era diventato un
suo classico live.
La musica è quella tipica dell'ultimo Coltrane.
Brutale, aggressiva, totalmente libera. Di più: gli oscillanti arpeggi
del piano di Alice Coltrane, l'incessante e possente drumming di Rashied Alì,
il puntuale contrabbasso dell'inseparabile Jimmy Garrison (unico superstite
del quartetto classico), e soprattutto la dialettica degli assolo di Sanders
e
Coltrane, le conferiscono uno straordinario carattere ipnotico.
Gli strumenti
non si accompagnano: si sovrappongono, si stratificano, fino a creare un
magma sonoro così avvolgente da trasportare gli stessi musicisti in un vero e
proprio stato di trance. Ognuno agisce in assoluta libertà, allontanandosi dal
tema guida (che nell'ottica free è semmai «un tema») ed
assecondando unicamente l'ispirazione del momento. Ne sono uno splendido
esempio i trentaquattro minuti di
My Favorite Things. Introdotta da
un lungo, disteso assolo di contrabbasso, la composizione si sviluppa lungo la
linea dell'improvvisazione: gli assolo di Coltrane (al sax soprano) e del suo
discepolo Sanders (al tenore) sono stridenti, acuti, a tratti violenti,
perfettamente sovrapposti al poderoso tappeto ritmico offerto da Rashied Alì
e
dai percussionisti. Un'esecuzione di un vigore forse inaudito, ma dal fascino
spiazzante. Del resto, il Coltrane del biennio '65-'66 a questo ci aveva
abituati: performance spesso interminabili, ritmica sostenuta, ed un'eloquenza
torrenziale da parte dei solisti, i quali sembravano preoccuparsi poco dei
temi e della melodia.
Musica che sfugge ad ogni canone estetico, e
probabilmente ad ogni classificazione di genere - basta definirla free
jazz? - ma che si carica più che mai di spiritualità. Un dato, quest'ultimo,
che emerge chiaramente dall'ascolto di questo disco dal vivo. Insomma, mi pare
che
The Olatunji Concert fotografi al meglio (unica pecca la non
eccellente qualità dell'incisione) il momento di transizione - nel senso
dinamico, che lascia presagire un'ulteriore evoluzione - attraversato da
Coltrane negli ultimi anni della sua vita. Un periodo in cui il musicista
aveva più volte espresso dubbi ed incertezze riguardo alle nuove direzioni
intraprese dalla propria musica. Una musica diventata dura e spigolosa,
ostica ai più, ma nondimeno sublime. Con ogni probabilità, la più
intrigante e viscerale proposta in vent'anni di carriera.
Aldo Scalini
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Data ultima modifica: 05/01/2008
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