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La ESP è un'etichetta leggendaria fondata nel lontano 1963 da un eccentrico avvocato di New York: Bernard Stollman. Anzitutto un po' di storia. All'inizio della sua carriera forense, Stollman iniziò con l'offrire le proprie prestazioni professionali a musicisti di r'n'b che necessitavano di assistenza legale in tema di copyright e diritti d'autore.

Nell'autunno del 1963 fu invitato ad ascoltare una performance dal vivo dell'allora sconosciuto sassofonista Albert Ayler. La sera stessa, al termine del concerto, Stollman decise di fondare un'etichetta discografica e chiese ad Ayler, che accettò, di essere il suo primo artista. Nacque così "Spiritual Unity". Partendo da quel seme piantato quella sera d'autunno, Stollman conobbe ed ingaggiò altri artisti del calibro di Burton Greene, Ornette Coleman, Paul Bley e Sun Ra, solo per citare i maggiori. La leggenda racconta che, per finanziare l'impresa, Stollman si rivolse a sua madre chiedendo la propria parte di eredità.

La filosofia che stava dietro l'etichetta ESP-DISK era semplice: "Solo l'artista decide ciò che ascolterai sui dischi della ESP". Anche il modo di lavorare era semplice e, a giudicare dai risultati, efficace. I musicisti arrivavano in sala d'incisione, regolavano i livelli, suonavano una ed una sola take e se ne andavano. Il tutto nel giro di una o, al massimo, due ore senza nessuna sovraincisione e, soprattutto, con un budget veramente minimale. Si racconta che lo stesso Stollman in trent'anni ha visto Pharoah Sanders per il solo tempo necessario a registrare due pezzi di 23 minuti ognuno.

Il successo che ebbe Stollman con la sua ESP nel giro di pochi anni lasciò lo spazio a numerosi problemi che lo costrinsero a chiudere i battenti. Nel 1974, sotto la pressione dei debiti e dell'amministrazione americana che non vedeva di buon grado la politica contro la guerra che la ESP aveva intrapreso, la l'etichetta di Stollman chiuse. Ma non definitivamente. Stollman, in maniera previdente e lungimirante, chiuse i nastri originali delle incisioni in una cassetta di sicurezza da cui sono stati riesumati nel 1999 in perfette condizioni. Infatti l'etichetta olandese Calibre offrì a Stollman la possibilità di ripubblicare l'intero catalogo ESP che ora possiamo riascoltare su CD e di cui offriamo una breve, ma significativa campionatura.


Paul Bley Trio
Closer
1965

1. Ida Lupino (C. Bley)
2. Start (C. Bley)
3. Closer (C. Bley)
4. Sideways In Mexico (C. Bley)
5. Batterie (C. Bley)
6. And Now The Queen (C. Bley)
7. Figfoot (P. Bley)
8. Crossroads (O. Coleman)
9. Violin (C. Bley)
10. Cartoon (A. Peacock)


Paul Bley – piano
Steve Swallow –
basso
Barry Altschul –
batteria

Closer è sicuramente uno dei migliori lavori della varia e vasta produzione del grande pianista canadese, che con il suo stile e la sua poetica musicale ha esercitato una notevole influenza. Proprio Closer può rappresentare una perfetta sintesi del suo panismo, in quanto è un album che raccoglie equamente distribuiti brani d'ispirazione decisamente free, che ha caratterizzato il periodo precedente al 1965, e pezzi in cui emerge la sua capacità di suonare insieme note e silenzi, come testimonieranno i suoi successivi lavori con la ECM. Closer si compone di dieci schegge sonore, per la brevità dei brani che non superano i tre minuti e mezzo, di cui addirittura sette composti dalla allora compagna di Paul, Carla Bley, molti dei quali occuperanno un posto privilegiato nel repertorio del pianista, un brano per ciascuno sono del maestro Ornette Coleman (Crossroads) e della futura compagna di Paul Bley, Annette Peacock (Cartoon), mentre unico brano a firma del pianista canadese è Figfoot, che testimonia la sua mai abbandonata e celata passione per il blues, tangibile ricordo degli anni trascorsi nella formazione di Charles Mingus. Start, Batterie, Crossroads, Cartoon sono esemplari del modo in cui Bley suona il free: piuttosto che assolutamente liberi da struttura, i brani sono una condensazione in un tempo ridottissimo di un classico pezzo jazz, come una folgorante istantanea di tema – assoli – tema. Ida Lupino, Closer, Sideways In Mexico, And Now The Queen, Violin sono delicati gioielli pieni di pathos espressivo, tra cui emerge la struggente melodia di Ida Lupino, divenuta ormai un classico. Straordinario è il supporto della sezione ritmica di Steve Swallow al basso, che sarà anche in futuro complice di altre avventure jazzistiche di Bley, e di Barry Altschul alla batteria, grande maestro del free drumming, ma capace di essere a suo agio anche nei brani più melodici e pensosi di Closer.



Paul Bley Quintet
Barrage
1964

1. Batterie (C. Bley)
2. Ictus (C. Bley)
3. And Now The Queen (C. Bley)
4. Around Again (C. Bley)
5. Walking Woman (C. Bley)
6. Barrage (C. Bley)

Marshall Allen – Alto sax
Dewey Johnson –
Tromba
Eddie Gomez –
Basso
Milford Graves –
Batteria
Paul Bley –
Piano

Barrage è probabilmente l'album più rappresentativo della maniera di Paul Bley di concepire e suonare il free jazz. Pur essendo Barrage un lavoro decisamente free, si articola in sei composizioni della sua compagna di allora Carla Bley: sembra una contraddizione, ma Bley e il suo quintetto riescono a dare una forma free a brani dalla struttura anche complessa. Eppure la registrazione di Barrage è avvenuta tutta in una sessione, in una sola giornata come la filosofia della ESP prevede, con l'unica eccezione del brano che dà il titolo all'album, Barrage, che è frutto di una rielaborazione in studio, con la sovrapposizione dei nastri della registrazione da parte di Carla Bley, che non riscontrava nell'esecuzione in sala la corrispondenza con il pezzo quale lei lo aveva in mente quando l'aveva composto. Batterie, Ictus, Around Again entreranno in pianta stabile nel repertorio di Paul Bley, come tracce esemplari del suo gusto free. Barrage è comunque un album compatto e organico intorno alla sua ispirazione radicalmente free, ma non poteva essere altrimenti dal momento che può vantare il meglio di questo stile allora in circolazione come Marshall Allen al sax alto, membro di spicco della Solar Arkestra di Sun Ra, e, per gli appassionati di aneddotica, al basso figura un giovanissimo Eddie Gomez, un nome di cui sentiremo parlare, come si dice in questi casi. Una pausa di riflessione alla tonalità free di fondo, con addirittura scampoli di melodia, è la suggestiva And Now The Queen, miracolosamente in bilico tra la ritmica a mo' di marcetta della batteria di Graves e le nitide note del tema esposte dalla tromba di Johnson, mentre gli altri strumenti sembrano faticosamente controllarsi per non lasciarsi andare a un'improvvisazione totalmente libera.


Sun Ra
The Heliocentric Worlds of Sun Ra vol. 1
1965

1. Heliocentric (Ra)
2. Outer Nothingness (Ra)
3. Other Worlds (Ra)
4. The Cosmos (Ra)
5. Of Heavenly Things (Ra)
6. Nebulae (Ra)
7. Dancing in the Sun (Ra)

Robert Cummings – Clarinetto basso, Wood Blocks
Jimmi Johnson –
Percussioni, Timpani
Teddy Nance –
Trombone
Ronnie Boykins –
Basso
Marshall Allen –
Piccolo, Alto, Campane, Cimbali spirali
John Gilmore –
Tenore, Timpani
Pat Patrick –
Baritono, Percussioni
Chris Capers –
Tromba
Bernard Pettaway –
Trombone basso
Danny Davis –
Flauto, Alto
Sun Ra –
Bass Marimba, Electronic Celeste, Piano, Timpani

Quello dei due volumi di The Heliocentric Worlds è certamente il Sun Ra più avventuroso e radicale e, conoscendo il personaggio, è tutto dire. La musica della Solar Arkestra diretta da Sun Ra è indefinibile: destruttura ogni forma o schema tradizionale, è free, ma nella sua foga dissacrante non rinuncia alla composizione e al progetto musicale; non è musica di questo pianeta, ma di un altro e non può essere giudicata con metri musicali terrestri, come lo stesso Sun Ra amava ripetere. Ne sono testimonianza esemplare i sette brani che compongono questo album; ognuno di essi ha una struttura abbastanza simile: si inizia con un tessuto sonoro rarefatto di basso e percussioni o di tastiere, che si fa sempre più teso e compatto fino a esplodere improvvisamente con i fiati, una sorta di ritorno al caos primordiale. Si tratta di brani dalle tinte fortemente evocative, veri e propri rituali, come in seguito soltanto gli Art Ensemble of Chicago ci hanno abituato ad ascoltare. Sembra eccentrico, ma non deve stupire che la presenza dominante tra gli strumenti spetti ai timpani, in The Cosmos e Of Heavenly Things in particolare, a sottolineare il rovesciamento programmatico di ogni tradizionale gerarchia musicale. Piuttosto che di brani, The Heliocentric Worlds è composto di immagini sonore, che con la musica tentano di descrivere "altri mondi", come indica il titolo di uno dei pezzi, dei quali non possiamo avere altra percezione. E sembra quasi irridente il minuto e cinquanta di Dancing in the Sun, che chiude l'album in classico stile jazz-band.
 


Albert Ayler Trio
Spiritual Unity
1963

1. Ghosts: First Variation (Ayler)
2. The Wizard (Ayler)
3. Spirits (Ayler)
4. Ghosts: Second Variation (Ayler)

Albert Ayler –
sax
Gary Peacock –
basso
Sonny Murray –
batteria

Albert Ayler rappresenta l'incarnazione stessa dello spirito e della filosofia ESP. Pare che dopo aver ascoltato una performance live di Ayler conclusa con un solitario e torrenziale assolo di venti minuti del sassofonista, Stollman abbia chiesto ad Ayler di inaugurare la label con una sua incisione. Per tutta risposta Ayler affermò la condizione fondamentale per la registrazione, poi sintetizzata nella frase che da allora è diventata la sintesi stessa della filosofia ESP: "The artist alone decide what you will hear on their ESP-disk". Fu così che, insieme alla ESP, vide la luce Spiritual Unity. Spiritual Unity non solo rappresenta esemplarmente la ESP, ma è un approccio indispensabile a uno dei jazzisti più originali e d'avanguardia di sempre. Dal punto di vista tecnico, Ayler non ha inventato nulla, ma pochi come lui sono riusciti a portare il sax a un livello così impressionante di espressione, fisica ed emotiva soprattutto. Forse soltanto l'ultimo Coltrane, suo grande maestro, è riuscito a esprimere in modo così pieno la spiritualità afroamericana. Sarebbe sufficiente ascoltare la lacerante The Wizard oppure Spirits, un vero e proprio lamento per sax, dove sembra che tra l'anima di Ayler e il suo strumento non ci sia nessuna sorta di mediazione. E ancora Ghosts, presente in due versioni, che inizia e si conclude con un tema tipicamente gospel, ma per il resto è un'invocazione tumultuosa e graffiante, che tuttavia riesce a toccare vette espressive di intensa spiritualità. Fa un certo effetto trovare in Spiritual Unity, al basso, quel Gary Peacock conosciuto oggi al grande pubblico per far parte di una formazione di tutt'altro tenore musicale, l'ormai leggendario Standards Trio di Keith Jarrett.


Albert Ayler
Spirits Rejoice
1965

1. Spirit Rejoice (A. Ayler)
2. Holy Family (A. Ayler)
3. D. C. (A. Ayler)
4. Angels (A. Ayler)
5. Prophet (A. Ayler)

Albert Ayler – sax tenore
Don Ayler –
tromba
Charles Tyler –
sax alto
Sunny Murray –
batteria
Call Cobbs –
clavicembalo elettrificato
(4)
Henry Grimes & Gary Peacock –
bassi

Spirits Rejoice rappresenta un altro essenziale capitolo della breve e intensa carriera musicale di Albert Ayler. La presenza, accanto al sassofono tenore di Ayler, di altri due fiati quali la tromba del fratello Don e il sassofono alto di Tyler, rende questa live session una vera e propria espressione di tumultuosa potenza. Dissacrante e sarcastica è la title track, che comincia con una sorta di marcetta militare che di nota in nota sembra sempre più assomigliare a La Marsigliese, un'evocazione sospesa tra un canto di liberazione spirituale e un'ironica e polemica citazione dell'inno che celebra la democrazia occidentale e i diritti fondamentali dell'uomo e del cittadino. Anche Holy Family ha l'andamento della marcetta ipocritamente festosa, D. C. presenta un tema elementare suonato dai fiati all'unisono, che si perde tra assoli strazianti, esemplari del free più esasperato. Dello stesso tenore è Prophet, il brano che chiude l'album, una devastante manifestazione di caos allo stato puro, in cui salta ogni schema precostituito e parlare ancora di tema e assolo è semplice eufemismo. Eppure, tra ridicolizzate marcette militari e furiosa ribellione sonora, Spirit Rejoice ha un momento di sincera e sconcertante spiritualità in Angel. Con il contributo determinante del clavicembalo elettrificato di Cobbs, che ricrea la raccolta intimità di una chiesa, Angel è un dolente canto di commovente religiosità, che tocca vette di trascendenza ed elevazione spirituale quali soltanto John Coltrane era stato in grado di esprimere.


Pharoah Sanders
Pharoah's First
1964

1. Seven by Seven (Sanders)
2. Bethera (Sanders)


Pharoah Sanders: Sassofono
Stan Foster:
Tromba
Jane Getz:
Pianoforte
William Bennett:
Contrabbasso
Marvin Pattillo:
Percussioni

La sensazione che si prova a maneggiare questo album è quella di avere un pezzo di storia del jazz tra le mani. Sebbene non sia l'edizione originale, ma una sua riedizione, frutto di una coraggiosa operazione dell'etichetta danese Calibre, tutto il fascino rimane immutato grazie anche alla cura del direttore artistico. Il booklet presente all'interno del cd riproduce fedelmente le note originali di copertina e, al contempo, offre un po' di storia sia dell'etichetta ESP, sia dell'album in sé. Ma passiamo alla musica. Il cd è composto di sole due tracce dalla ragguardevole durata di circa 26 e 23 minuti ciascuna. Dalle note di copertina si legge che la sessione di registrazione è durata non più di due ore durante le quali i musicisti hanno sistemato gli strumenti, effettuato il check sound e suonato una sola e definitiva take. Mentre la disposizione fisica degli strumenti nello studio di registrazione rimane ignota, la loro distribuzione tra canale sinistro e canale destro è ben delineata: sassofono e pianoforte sul canale sinistro, tromba e contrabbasso sul canale destro, batteria al centro su entrambi i canali. L'effetto in cuffia è sorprendente riuscendo ad avvolgere l'ascoltatore e fornendogli una sensazione di tridimensionalità. L'esecuzione dei due brani è anch'essa sorprendente anche se non è proprio quello che ci si aspetta da un disco considerato d'avanguardia. Infatti l'unico musicista che va oltre gli schemi è solo Pharoah Sanders, mentre gli altri quattro si muovono su terreni abbastanza classici tranne pochissime eccezioni. Mentre ciò può essere una delusione per un ascoltatore purista del free jazz, potrebbe essere una piacevole sorpresa per chi si accosta per la prima volta a questo tipo di musica, risultando nel complesso gradevole e fornendogli un ingresso molto soft verso tale tipo di musica. Al di là dei visionari assoli di Pharoah Sanders, infatti, gli interventi degli altri quattro musicisti sono gradevoli e misurati. Belli, in particolar modo, sono gli assoli eseguiti dal trombettista del gruppo, Stan Foster e dal pianoforte a cura di Jane Getz.
L
a qualità del suono, infine, è eccellente nonostante le incisioni originali risalgono a quasi 40 anni or sono, merito sia di Bernard Stollman, che ha provveduto a mantenere in un perfetto stato di conservazione i nastri originali, sia dell'operazione di rimasterizzazione che ha conservato intatta l'atmosfera sonora originale depurandola, per quanto possibile, dai disturbi dovuti sia all'attrezzatura dell'epoca, sia all'inevitabile effetto del tempo.
Alessandro Marongiu e Dario Gentili

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Data pubblicazione: 15/11/2003





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