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Sandrine Monlezun
Don't Take My Head
Art Dealer (2013)
1. Impro #1
2. Suite mauritanienne
3. La Tisserande
4. Tel Aviv beach, Winter 74
5. Poème de Bulleh Shah
6. Impro #2
7. Mon enfant
8. Deux haïkus
Sandrine Monlezun - composizione, voce, sintetizzatore microKORG Théo Ceccaldi - violino, cori (2, 3, 4, 6, 8) Meivelyan Jacquot - percussioni, cori (2, 3, 4, 6, 7, 8) Mathieu Schild - contrabbasso (2, 3, 4, 6, 8) Efrèn Lopez Sanz - ghironda (5) Abdoulaye Traoré - chitarra acustica ed elettrica (2, 7) Geoffroy Tamisier - tromba (3, 4, 8) Raphaël Merlin - violoncello (3) Kutle Khan - voce, karthal (5) Nathoo Lal Solanki - nagara (5) Lucas Gillet - basso (2, 3) Smail Benhouhou - bendir..., karkabou, cori (2) Awena Burgess - Mukaddas Mijit, Bouzhigmaa Santaro, Catherine Merle: coro (2, 5)
Un taccuino di viaggio colmo di narrazioni sonore. Pagine di musica e voce che
materializzano, in filigrana, paesaggi, climi e traiettorie migranti offrendo, come
una mappa, le coordinate per non perdersi tra suoni e suggestioni.
"Don't Take My
Head", album d'esordio da solista di Sandrine Monlezun, sembra riscrivere
in musica il percorso dell'artista, che dalle piccole voci del coro di Radio France,
gli studi di etnomusicologia, i cori bulgari, giunge alla world music. Viaggi e
contaminazioni che profumano anche questo album. Come nella "Suite mauritanienne"
e il "Poème de Bulleh Shah", dove drums e nagara riverberano come passi su una terra
bruciata dallo stesso sole. Tramonti d'Africa nella chitarra di Abdoulaye Traoré
che, con la voce della Monlezun, si fa ‘culla' in "Mon enfant". Voce che a volte
duetta col sintetizzatore e i suoni distorti dell'elettronica, e altre si moltiplica
nei cori. Un diario che sfoglia culture diverse, intrecciando note originali con
parole spesso dimenticate, inseparabilmente, come luci e ombre. Così sonorità mauritane
fanno danzare l'Africa nel lamento pashtun dei campi di rifugio, la ‘seta' del violoncello
è trama per il canto cinese de "La Tisserande"; in "Tel Aviv beach, Winter 74" la
voce distorta affila ancor più i versi graffianti di Raquel Chalfi sul dopoguerra
in Kippur. Una ricca compagine di strumenti tradizionali ritma i versi sufi di Bulleh
Shah e quelli haiku di Bashô e Ransetsu. Impossibile costringere in associazioni
lineari l'ampio ventaglio sonoro che, dalle pagine fitte, fa inevitabilmente scivolar
via frequenti variazioni stilistiche, imprevedibili anche nello stesso brano. La
Monlezun non smette di raccontare, nemmeno nelle due raffinate "Impro", pagine fuori
brossura di questo lungo viaggio.
Esordio che prelude a nuove partenze, a nuove
culture da accogliere e - neanche a dirlo - a nuovi diari sonori da scrivere.
Simonetta Salinari per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 28/05/2014
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