Jazzitalia - Ingrid Jensen: At sea
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Ingrid Jensen
At sea


1. At sea (Ingrid Jensen)
2. Storm (Jon Wikan)
3. Captain Jon (Geoffrey Keezer)
4. As love does (Ingrid Jensen)
5. Tea and Watercolors (Geoffrey Keezer)
6. There is no greater love (Marty Symes & Isham Jones)
7. Everything I love (Cole Porter)
8. Swotterings (Ingrid Jensen)
9. KD Lang (Ingrid Jensen)

Ingrid Jensen - trumpet, flugellhorn
Geoffrey Keezer - piano, fender-rhodes, keyboards
Jon Wikan - drums, cajón, palmas, percussion
Matt Clohesy - acoustic bass
Lage Lund - guitar on tracks 5 & 8
Hugo Alcázar Matt Clohesy - cajón, batajón, djembè on track 7


Il cognome farebbe pensare ad origini nordeuropee, ma la trombettista Ingrid Jensen è nata a Vancouver e cresciuta nella piccola cittadina di Nanaimo, in Canada, il paese invero più europeo dell'intero continente americano, sintesi fra le culture anglo-sassone ed euro-continentale. Il che spiega molto anche della sua musica: paesaggi sonori vicini a certi trombettisti nordici, ma anche influenza determinante dello sbocco al mare, anziché fredde cime coperte da nevi perenni (che pure non mancano nei monti che circondano la sua città natale). E la prossimità alle distese oceaniche rende distensiva e temperata la sua musica – come del resto è tipico di alcuni imprescindibili trombettisti canadesi, uno per tutti: Kenny Wheeler –, riflessiva e a volte lievemente malinconica, ma non necessariamente – né troppo – cerebrale. E nondimeno, nei tempi più spinti ha in sé i guizzi più tipici del jazz, tuttavia stemperati, levigati delle asperità del bop più convulso.

E proprio l'eponimo At sea apre il cd, un brano disteso, placido, con qualche increspatura alla fine: questo il ritratto musicale del mare rappresentato dalla Jensen nella composizione ispiratale da una poesia scritta in età adolescenziale, a riprova dello stretto rapporto che da sempre lega la trombettista canadese all'elemento marino, con piano e batteria a tratteggiare un'ambientazione minima e controllo volume della chitarra ad eludere l'attacco del plettro e creare prospettiche suggestioni. Quaranta secondi di vibrazioni sui piatti per Jon Wikan, a riprodurre leggeri colpi d'ala d'uccelli che sembra quasi di scorgere, anche non sapendo del titolo, Storm, e da uno schiocco di piatti s'avvia la successiva Captain Jon, dedicata proprio al batterista che, come si legge nei ringraziamenti, la Jensen chiama affettuosamente "capt'n": dall'iniziale figura ritmica parte una semplice sequenza d'accordi, percorsa da una disinibita cavalcata sui pistoni e da un elegante intervento di Geoffrey Keezer, proprio il pianista del Winsconsin che, terminati gli studi musicali, a soli diciotto anni veniva richiesto contemporaneamente da Miles Davis e Art Blakey, dei cui "Jazz Messengers" fu l'ultimo pianista, e che da qualche anno si è imposto anche all'attenzione della critica duettando con Jim Hall ed erompendo dalle fila della band di Christian McBride. Sorprendente per il corpo dei suoni – ottimo lavoro in studio, il bilanciamento dei volumi, la giusta profondità per ciascuno –, per l'esecuzione precisa del pianista, la convincente interpretazione digressiva che ne dà la Jensen alla tromba e Wikan che si dimostra rifinitore propulsivo della sezione ritmica, siglando un break di grande impatto: un trascinante risultato complessivo.

Inizio in punta di dita per As love does, i bassi lunghi, un alito le note del flicorno, pensate, tenute e dense, il piano traslucido, la linea del basso che dall'intro si riversa in un morbido 5/4. Tanti gli spazi lasciati alla fantasia dei solisti, in buona coralità esecutiva: i quattro dialogano bene insieme, si rubano spunti e figurazioni, il piano improvvisa sulle idee della flicornista a sua volta sostenuto dalle sottolineature del contrabbasso di Matt Clohesy (membro fisso del trio del tastierista) e dalle scosse sui piatti di Wikan, che quasi sorreggono le legature del fiato, prendono campo e si fanno sempre più insistenti. E soprattutto c'è il timbro della Jensen, la quale mette bene in luce le qualità tecnico-espressive del proprio strumento, un suono non potente ma intimo e raccolto che contribuisce alla dimensione poetica, con scioltezza e padronanza del pregresso jazzistico. Un rarefatto unisono di piano e tromba, qui "sordinata", apre in prospettiva modale Tea and watercolors sopra un cadenzato pedale: si inserisce la chitarra elettrica di Lage Lund, ai cui giochi fanno da sponda i tasti di Keezer ed i pistoni della Jensen, adesso al flicorno – anch'esso ora smorzato, ora aperto – e in alcuni frangenti in acuta sovrapposizione della stessa tromba, a rivelare un gusto sapiente per le diverse voci dei propri fiati.

Parentesi dedicata a due standards la cui rilettura, lungi dall'essere mero spunto per improvvisare, rende merito alle capacità esecutive dei protagonisti, la cui ottima intesa è in grado di delineare un clima originale anche su battutissime pagine di jazz. Si parte ancora in "mute" di tromba, toni sibilanti e metallici, per una autunnale There is no greater love, suadente quanto basta per farne scaturire un lento blues su cui, dopo il piano, Keezer si prodiga al fender-rhodes accentando accordi e nervosi frammenti di frasi, in combinazione con la stessa titolare, che proprio sulla sfumatura finale intona le prime battute di "Nature Boy". E la linfa milesiana è ancora più pulsante nella seguente song, dove dopo una suggestiva introduzione "sospesa" alla tromba, prolungata da lieve riverbero, si scopre una intensa Everything I love (Cole Porter), allestita con dovizia di percussioni – cajón, batajón, djembè – dal peruviano Hugo Alcazar: qui il rhodes, più arguto e piroettante, riesce ad evocare alcune sonorità caratteristiche del periodo elettrico con Hancock, l'improvvisazione è condotta su un lungo pedale, e solo in coda torna la melodia iniziale, colorata dagli strumenti acustici.

Tempo portato sul rullante secco e tromba in sordina per l'incipit di Swotterings, un pezzo tanto mercuriale – ritmicamente – quanto per ciò stesso galvanizzante. Inciso affrontato dall'elettrica di Lund, tonda e pulita, all'unisono con la tromba, adesso "open", quindi dal contrabbasso marciante di Clohesy scatta una turnazione di poco meno di due minuti per ciascuno: con andamento ritmico elastico che a tratti rallenta e a tratti accelera, la fiatista sulla scorta dei suoi compagni intesse un assolo scaleno ma organico, modellato più sui block chords del piano e sul basso che non sulla traccia melodica. E proprio il piano, al suo turno, riesce a creare una eccellente divagazione, con straordinaria indipendenza delle mani, mentre in chiusura il vamp su cui è imperniata l'elaborazione in estemporaneità viene esaltato dal crescendo percussivo della batteria. Misterioso preludio pianistico, piglio melodico confermato anche dall'entrata del flicorno, un nostalgico tema per KD Lang, sulle cui note si adagia lineare il pensiero solistico del contrabbasso, seguito dal brillante diversivo della leader, fino all'intermezzo elettro-funky del synth, incitato dalle spingenti poliritmie di Wikan, tanto da indurre Keezer, adesso al piano, a farsi gradatamente percussivo, senza per questo perdere in intelligibilità. Quindi ritorno alla trama d'apertura, che dopo il deflagrante excursus policromatico, risulta ancora più lirico al riverbero dei fiati sovra-incisi che amplifica l'orizzonte sonoro. Una composizione molto coinvolgente, che non avrebbe potuto chiudere meglio l'intero album.

Puntuale spiegazione delle singole tracce viene dalle liner-notes, che ci siamo ben guardati dal leggere, sia per non esserne influenzati, sia per non togliere, a chi vorrà, il piacere di scorrerle durante l'ascolto.
Antonio Terzo per Jazzitalia







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Data pubblicazione: 08/12/2006

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