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David Binney & Edward Simon
Afinidad

1. Red (D. Binney) 6.12
2. Civil War (D. Binney) 6.17
3. Pere  (E. Simon) 6.48
4. Aguantando (E. Simon) 9.08
5. Vidala (Ginastera) 1.10
6. Sadness (Ginastera) 1.23
7. Mi Querencia (Simon Diaz) 9.48
8. Simplicity (E. Simon) 2.20
9. Reflecting (Binney, Simon) 1.19
10. Red Reprise (D. Binney) 2.23
11. Remembrance (D. Binney) 5.00

David Binney:
alto sax
Edward Simon:
piano
Scott Colley:
bass
Brian Blade:
drums
Adam Cruz:
percussion
Lucia Pulido:
voice
Adam Rogers:
guitar

Recorded april, 14 2000



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Per chi, negli anni, ha seguito le loro parallele e spesso convergenti carriere artistiche, era evidente, quasi inevitabile, che David Binney ed Edward Simon avrebbero ben presto deciso di realizzare un disco in comune. La loro associazione musicale è ormai rodata da innumerevoli collaborazioni, sia su disco che dal vivo, e il loro interplay – come gli ascoltatori di questo splendido album stanno per valutare di persona – ha raggiunto un alto, quasi telepatico, livello di comunicazione.

Entrambi, Binney e Simon, sono musicisti anomali, decisamente originali,  in un panorama jazzistico contemporaneo che sembra dominato dall'omologazione a modelli standard di riferimento. Entrambi riescono ad eludere la troppo diffusa moda di catalogazione stilistica che affligge, come un'epidemia, il mondo del jazz. Simon, ad esempio, sembra voler sfatare, ad ogni costo, il trito cliché del pianista di latin jazz, tutto ottave parallele, montuno e gomiti sulla tastiera. E' logico che, come testimoniano la sua origine venezuelana e la sua militanza in numerosi gruppi guidati da autentici senatori della musica latina (Manny Oquendo, Charlie Sepulveda, Jerry Gonzalez, Paquito D'Rivera), il Nostro sia perfettamente in grado di esprimersi con compiutezza e coerenza in quel linguaggio, del quale ha - fin da giovanissimo - subìto l'imprinting; ma è altrettanto vero che, da quella che poteva rivelarsi una gabbia stilistica da cui sarebbe stata poi ardua la sortita, Simon ha tentato fin da subito di affrancarsi, riuscendo a forgiare una sintesi di linguaggi che, oggi, lo mette al riparo da qualunque banale valutazione critica. Ascoltate, ad esempio, lo strepitoso assolo su Pere, nel quale Simon decide di mettere insieme, con disinvoltura ma anche con logica e coerenza, elementi di fraseggio latino e brandelli di pianismo alla McCoy Tyner (la cui influenza sui pianisti centro e sudamericani, per inciso, meriterebbe una disamina a parte), senza mai cedere alla spettacolarità fine a se stessa, né ad un vacuo sfoggio di tecnica pianistica.

Binney, d'altra parte, ha mostrato fin dall'inizio della sua attività professionale i chiari segni di una totale indipendenza estetica e di una ferrea volontà di sfuggire a qualunque tentativo di inquadramento stilistico. Che avesse le idee chiare si era capito fin da subito, già da quel biglietto da  visita che è stato, or sono dieci anni, il suo esordio discografico, "Point Game" per l'etichetta francese OWL. E chi, come tutti all'epoca, di Binney non sapeva ancora niente, rimase sorpreso di trovarsi di fronte ad un musicista il cui linguaggio – in quello che era, in realtà, poco più di un saggio scolastico di fine corso – era molto ben formato, e la cui visione artistica era già in gran parte definita. Impressione confermata, di lì a qualche anno, dalla pubblicazione di quello che, a nostro avviso, rimane uno dei più brillanti lavori degli anni '90, "The Luxury of Guessing", inciso per la Audioquest.

Come Greg Osby, con il quale vanta non poche affinità, Binney ha le capacità e la determinazione di intraprendere percorsi stilistici paralleli ma spesso complementari: da un lato i propri ensemble, di impostazione prevalentemente acustica, che vedono all'opera un nucleo intercambiabile, ma sostanzialmente stabile, di collaboratori; dall'altro il gruppo cooperativo e sperimentale Lan Xang, le cui due uscite discografiche avrebbero meritato ben altra considerazione critica; poi la militanza in un gruppo elettrico, i Lost Tribe, la cui esperienza si è probabilmente conclusa dopo tre album ma che vanta uno status quasi di culto tra i colleghi musicisti; e la partecipazione, infine, a lavori di prestigio e di buona notorietà come i due volumi mahleriani di Uri Caine o il riuscitissimo disco del contrabbassista Drew Gress per la Soul Note, "Heyday".

Degno di nota, ma soprattutto indicativo di un forte senso di comunità, è il fatto che alla maggior parte dei succitati progetti collabori un numero abbastanza ristretto di musicisti; dall'onnipresente contrabbassista Scott Colley, autentica spina dorsale del jazz degli anni '90 e, crediamo, degli anni a venire, al batterista Jeff Hirshfield, dal chitarrista Adam Rogers al sassofonista Donny McCaslin. Ma il rapporto privilegiato, l'asse portante, è la grande affinità esistente tra David Binney ed Edward Simon, che mai come in questo nuovo lavoro aveva comunque trovato piena realizzazione.

Fin dal titolo dell'album, "Afinidad", è evidente come l'accento sia stato posto su una comunanza di intenti; fin dal primo ascolto è chiarissimo quanto i due musicisti trovino soddisfacente e complementare il suonare insieme. Binney è senza dubbio il più "oggettivo" dei due; le sue linee sassofonistiche rifulgono in maniera quasi geometrica, illuminate da una luce fredda e tagliente. Spetta a Simon riscaldare l'atmosfera, grazie ad un tocco pianistico a dir poco straordinario e ad un lirismo di rara capacità evocativa, allo stesso modo in cui, oltre dieci anni fa, dava calore ad un ormai quasi dimenticato disco di Greg Osby, quel "Man-Talk for Moderns, vol.X", album sottovalutatissimo a causa della sua impostazione elettrica, ma che racchiudeva, in nuce, diverse intuizioni che possiamo oggi meglio mettere a fuoco in "Afinidad".

Ma l'elemento più significativo di "Afinidad" è l'aver scelto (o l'essere stati scelti da?) la musica latina come denominatore comune e comune terreno di incontro. A pensarci bene, non poteva forse essere altrimenti. Entrambi i leader – Binney e Simon – sono originari di luoghi non  certo ad alta concentrazione jazzistica. Binney è nato in Florida ma cresciuto a Ventura, nella California del Sud; splendida città, la cui fama è essenzialmente legata al suo più celebre residente, lo scrittore Erle Stanley Gardner, il creatore di Perry Mason. Simon, come si è già detto, viene invece dal Venezuela. Mondi apparentemente lontanissimi, ma che trovano un forte legame quando si pensi che a Ventura, giusta la sua vicinanza al confine, è fortissima l'influenza della cultura messicana e latina in genere, e che la nascita di Binney a Miami lo ha sicuramente esposto – fosse anche a livello inconscio – al richiamo di Cuba.

Ecco quindi che l'intero disco è attraversato - proprio come un fiume sotterraneo il cui corso, a volte, esce alla luce del sole - da situazioni e richiami alle culture centro e sud americane, non solo di matrice popolare ma anche, come nel caso dei due suggestivi aforismi di Alberto Ginastera, di rigorosa impronta novecentesca.

Ecco quindi che l'intero disco può vantare una sapiente mise en scéne, nella quale i due brevissimi pezzi di Ginastera, non casualmente sistemati al centro del programma, hanno funzione di perno, di vertice; verso il quale sale la prima parte dell'album, con il picco emozionale di Aguantando – che non a caso prevede l'impiego della voce – e dal quale scende lentamente la seconda parte, piano piano placandosi dopo l'intensa esecuzione di Mi Querencia. Da lì, "Afinidad" va a sfumare nel quieto camerismo degli ultimi brani, che vedono prevalentemente all'opera il duo sax alto-pianoforte.

Ecco quindi che ci si allontana dall'ascolto di "Afinidad" con un peculiare senso di  compiutezza, quasi come al termine di un pasto preparato da un grande cuoco, durante il quale abbiamo scoperto, quasi con stupore, che tutti gli ingredienti erano al posto giusto e contribuivano, ciascuno per la sua parte, al risultato finale.

E' giusto, per concludere, citare il significativo contributo apportato alla riuscita dell'insieme dagli altri componenti del gruppo, dai percussionisti Brian Blade e Adam Cruz al chitarrista Adam Rogers, con una particolare menzione per Scott Colley, eccezionale contrabbassista la cui perfetta intonazione e la straordinaria versatilità gli consentono di trovarsi a proprio agio in qualunque situazione e, in più, di offrire un contributo decisivo alla chiarezza dei piani sonori – punto fondamentale in una musica come quella di Binney e Simon, che fa della cura dei particolari e della nitidezza delle linee melodiche, spesso sovrapposte, uno degli elementi cardine della propria poetica.
Luca Conti

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Data pubblicazione: 08/06/2001





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