Associazione Culturale "Il Caleidoscopio"
Jazz Vanguard – Autunno 2003
Palermo, 28 ottobre – 23 dicembre, Ccp Agricantus
di Antonio Terzo
Si è conclusa a Palermo Jazz Vanguard, la stagione organizzata dall'Associazione Culturale "Il Caleidoscopio" presso il Ccp Agricantus. «Una rassegna autunnale di jazz frequentata da pochi ma buoni affezionati», come il direttore artistico
Toti Cannistraro ha affermato in presentazione dell'ultimo appuntamento, tirando un po' le somme, per tante avverse contingenze forse, ma certamente non a causa della scarsa qualità del jazz e dei musicisti proposti.
Ad aprire il cartellone è stata infatti la coppia Dave Kikoski-Rob Scheps, agile pianista il primo, approccio moderno ed innovativo, capace di arricchire il proprio jazz con sonorità pop e rock, e versatile sassofonista il secondo, in grado di prodursi alle ance come al flauto traverso, pluripremiato dall'autorevole
Down Beat Magazine con vari riconoscimenti. Molto fluido e a tratti anche ironico il pianismo di Kikoski, pieno di sorprese tecniche e dotato di un ricco linguaggio, ben si sposa con il disinvolto contralto di
Scheps, il quale in improvvisazione mostra un piglio fantasioso che mai tuttavia elude lo schema armonico del pezzo. Così nei primi due brani,
Coretet
e la coltraniana Moment notice, mentre il nucleo della performance si fa più soft e melodico con
Gifts, espresso quasi sottovoce dalle note di Kikoski e da un sentito solo di Scheps, denso di vibrati che indugiano su suoni prolungati e suggestivi. I due sono spalleggiati da una importante ritmica, la collaudata combinazione del nigeriano Essiet Okun Essiet al contrabbasso e del palermitano Marcello Pellitteri alla batteria, il primo artefice qui di un coinvolgente assolo, a tratti pensoso, a tratti nervoso, il batterista più protagonista di un pregevole tempo raddoppiato ed un fill-in pulito e scoppiettante nella successiva
Autumn Leaves, per il vellutato flauto traverso di Scheps, più riflessivo rispetto all'ancia, che sul finale Kikoski smuove con un ritmo
latin a doppia ottava. Per il bis il gruppo propone
Blues in G, con un fulminante assolo di Kikoski arricchito da numerose citazioni di Scheps e dalle triadi di Essiet al contrabbasso.
Ancora il piano protagonista del secondo appuntamento, quello della canadese Renée Rosnes, fresca vincitrice dell'internazionale June Award come Traditional Jazz Album of the Year con
Life on Earth
(EMI), accompagnata da Rich Perry al sax, Dennis Irwin al contrabbasso e Lewis Nash alla batteria. Fin dall'apertura con
Summer Night, la Rosnes mostra un pianismo spigliato, lirico quanto basta ed elegante per cromatismi. Pregnante il pizzicato di Irwin in
Con alma
di Gillespie, sostenuto con garbo da piano e batteria, sulla quale Nash inserisce un break al rimshot che sfocia in un notevole duetto con la Rosnes, praticamente all'unisono. Ed in effetti la coppia costituisce l'asse portante del gruppo, e basta uno sguardo e spesso solo una frase per farsi entrambi protagonisti di un jazz di gran qualità, come nella successiva
Recorda me
di Joe Henderson, uno scherzoso bop il cui theme viene inizialmente svolto all'unisono dal piano e dal pastoso tenorsax di
Rich Perry, il cui timbro caldo e sinuoso è supportato dal discorsivo solo di contrabbasso, cui poi si aggiungono le propulsive bacchette di Nash per un inusitato assolo del crash stoppato che poco a poco il drummer monta nel proprio monologo a farne un trionfo di vibrazioni, con passaggi ritmici che staccano precise le frazioni più rapide della misura, accentando il tempo con la bacchetta sinistra impugnata al contrario. Altro delizioso idillio musicale della coppia Rosnes-Nash si registra in
Dave's chant, una rumba-jazz segnata dal dondolante pedale del contrabbasso di cui la pianista canadese nel proprio sviso raddoppia il timing, prontamente sorretta dal roboante e onnipresente Nash. Non sono da meno
Don't you know I care?
di Ellington ed un particolare brano di Buster Williams,
Tokudo, mentre fra i pezzi dell'ultimo album spicca
Icelight, con un
mood hard-bop di Perry, più sciolto nel percorrere le ottave del suo sax, arricchendo il suo assolo con una sorta di velato effetto "bifonico" e citazioni gershwiniane che galoppano sul fill ritmico creato da Nash. Acquieta l'atmosfera il solo di Irwin che esibisce un accurato tremolo e poi passa la battuta alle sabbiose spazzole di Nash, rimarcate dall'ennesimo applauso a scena aperta dell'ipnotizzato uditorio. A concludere, come bis,
Body and Soul,
degno finale di cotanto concerto.
Freschissima sorpresa sono stati gli emergenti Vinum de Cupa, quartetto jazz-mediterraneo costituito da Mauro Schiavone al piano, Giuseppe Urso alla batteria, Igor Ciotta al basso-fretless ed Orazio Maugeri ai sax, giovani jazzisti siciliani con rilevanti esperienze all'attivo, che hanno ospitato un'altra giovane promessa del jazz italiano, il trombonista Gianluca Petrella. Della loro musica colpisce il sound, costantemente in equilibrio tra radici mediterranee e tradizione jazzistica, soprattutto post-bop. Una scaletta di brani originali avviata da
No sun, delirante tema in 3/4 riquadrato all'interno dei 4/4 staccati dalla batteria, per un effetto tanto insolito quanto impressionante:
sulla semplice sequenza di quattro accordi, il trombonista barese intavola un discorso improvvisativo combinato al fluente fraseggio del soprano, a rischiarare l'ombroso loop del pezzo.
Determinante per l'impronta del gruppo l'intesa dei fondatori, il variegato lessico di Schiavone che dialoga incessantemente con il colorato sticking di Urso: in
Lampedusa, il primo si produce in una svolazzante intro dalle intimistiche progressioni armoniche, mentre il batterista si abbandona a pregnanti figurazioni stickless sulle pelli, intense come l'elastico basso che enuncia una cadenza arabesca per le note dei due ottoni: pregevole il risultato, un cantabile refrain che entra dentro in punta di piedi. Affiora invece in
Ancora una canzone
l'anima fusion della band, dal puntuale tocco del piano ai glissati del basso all'ottava, dal suono brillante del saxalto agli armonici dei piatti. Ancora mediterraneità in
Giufà di Fez, un'allegra aria danzante che nella seconda parte si trasforma sospesa nei ghirigori del piano e nelle sonorità d'atmosfera siglate dal passo percussivo di Urso, non soltanto con un indovinato albero della pioggia, ma soprattutto con la vasta gamma di suoni che riesce a tirare fuori battendo i tamburi ai bordi e nelle aste. E poi
Miéusa, con la narrazione di Petrella fantasiosa negli spunti e colma di swing, sull'elettrico di Ciotta che nella seconda parte si trasforma in
walking-bass, scortato dai guizzi accentati dei rullati di Urso: il momento più avvincente del concerto. Infine
Vecchio casale, bis in cui il soprano di Maugeri si adagia sulle scale di Schiavone e le percussioni ad effetto di Urso, a cadenzare il tempo sulle spazzole appena brusite della sua batteria, mentre Ciotta lo rifinisce con armonici che rendono il suo fretless elemento caratteristico dei Vinum. Il brano evolve sull'interscambio soprano-trombone, con i gravi di quest'ultimo quasi a creare una sezione
brass, per un groove davvero trascinante.
Altro combo di grande interesse è stato il Joe Martin Project, guidato dal contrabbassista omonimo e composto dall'iberico Albert Sands al piano, il curioso Jorge Rossy alla batteria e l'eclettico Mark Turner al sax tenore. Un gruppo ben bilanciato in umori e caratteri dei musicisti, lirico e malinconico il piano in
Poppy's Song, un solo ad occhi chiusi per cantilenanti figure la cui struttura intrinseca non sempre è immediata; divertente, spontaneo e vivace il drumming di Rossy, a picchiare il controtempo in
Five on you, la cui elementare linea si presta all'abbellimento dai toni free di Turner, che si piega sulle ginocchia per rilasciare fino all'ultimo fiato dentro il sassofono e ritrovare invece un timbro ovattato in
Overwhelmed, ballad d'atmosfera pennellata dalle spazzole di Rossy sul rullante ad accompagnare un onirico monologo di Martin. Avvincente anche lo scambio sax-drums in
Manhattanville
destrutturata dal piano di Sands e ricucita dal contrabbasso del leader il quale dà prova pure di buona ispirazione compositiva, considerato che i brani, da quelli citati a
Closure
e Passage, tutti scaturiscono dal suo originale pentagramma per andare a comporre l'ultimo omonimo disco,
Passage
(FSNT).
Completamente differente il carattere del jazz proposto da Carme Canela ed i suoi
sidemen, un trio stabile ed affiatato composto da giovani ed interessanti musicisti – Joan Monné al piano, Rai Ferrer al contrabbasso e
David Xirgu alla batteria – che la seguono ormai dalla prima release a suo nome,
Introducing Carme Canela Trio. Un jazz sussurrato che percorre molti dei brani del cd
Iris
(FSNT), con intermezzi strumentali di pari nitidezza, come quello del piano di Monné in
Per Sant Joan
(Joan Manuel Serrat) o l'altro sulle spazzole di Xirgu in
Océano
del brasiliano Djavan, per la compenetrata interpretazione della fascinosa vocalist sul pieno ritmo del legno di Ferrer. Emozionante l'incipit di
Strange meeting
di Bill Frisell solo piano e voce seducente, sull'accattivante arrangiamento di Monné con accordi discordanti ed il sincopato beat pari di Xirgu. Carme Canela canta in modo pacato, quasi evocando i testi, e, seguendo il musicale idioma portoghese, sembra nei suoni di riconoscerne parole e significati, e quindi emozioni e suggestioni, come nella delicata
Óleo de mujer con Sombrero
di Silvio Rodríguez. Da segnalare anche
Iris, motivo originale di Monné che dà nome al disco, che parte con flebili onde dai piatti di Xirgu, per esporre poi una melodia non semplice ma eseguita dalla Canela in modo profondo e compenetrato, dando fiato alle sensazioni ed ai moti ispirativi del compositore. Qui si distingue il solo di Ferrer, a giocare con la struttura del pezzo, espandendone e mettendone a nudo le geometrie armoniche e le curve melodiche, mentre Monné racconta sui tasti storie musicali. E non potendo dar conto di tutta la scaletta, ci limitiamo a riferire che essa ha offerto anche una versione soft di
My Love
di McCartney, molto sensuale, un'ammaliante lettura "jazzy" di
Walking on the Moon
di Sting ed una preziosa
Young & Fine
di Joe Zawinul, nella quale la splendida interprete catalana mostra le sue caratteristiche di fresca scatter, meritando il plauso del pubblico. Per finire, un bis particolarmente toccante, una suadente
Estate
di Bruno Martino in cui l'articolazione delle parole indugia sulle vocali
distendendo la melodia fino a scoprirne le pieghe più intense ed insospettabili.
Molto teatrale l'esibizione della Macchina di Suoni Jazz Orchestra di Marvi La Spina, finemente dosata tra testi poetici di autori siciliani, classici e contemporanei, e composizioni originali scritte ed orchestrate dalla pianista palermitana, raccolte nel cd
Oboe sommerso
(DDQ) d'imminente uscita per gennaio. In concerto l'organico schiera due voci particolari, la versatile Anita Vitale ed il profondo e sorprendente Massimo Laguardia, poliritmico percussionista della band. Il set si snocciola in un continuum dove alla lingua siciliana di Maria Costa, Luigi Capuana ed Ignazio Buttitta si alternano le immaginifiche strofe di Maria Attanasio, le metaforiche stanze di Lucio Piccolo ed i minimalisti versi del grande
Quasimodo, tutto musicalmente tradotto in note dalla La Spina. Affascinante il contrasto cromatico dei tromboni e dei sax in sezione dissonante, mentre la ritmica, guidata dal piano della conduttrice, è affidata al contrabbasso di Luca Lo Bianco ed al fitto drumming di Giampaolo Terranova, in splendida intesa ne
U misteru
di Buttitta. Felici anche i contributi solistici, a cominciare dai due fiatisti ospiti, il romano Mario Raja ed il siciliano Stefano D'Anna, entrambi protagonisti di larghi respiri sia al soprano che al tenore. Nel brano 'A Brogna, degni di nota sono l'intervento di Laguardia alla tammorra, quello al piano della stessa La Spina, nonché gli incantevoli vocalizzi di Anita Vitale ed il solitario contralto di Antonio La Placa. A chiudere la serata
Kemonia, un noto pezzo della musicista palermitana, dedicato al grande Bill Russo recentemente scomparso, per musicare
Si' funtana
di Capuana, ai cui vocals si aggiunge la cantante Giorgia Crimi, con un feeling vagamente funky reso dal travolgente solo di
Gaspare Palazzolo al tenore, quindi
Ed è subito sera, con un commento musicale che, afferma la pianista, «ben si attaglia alla poetica quasimodiana che come il jazz è intrisa di doppi significati», ed in ultimo – e non avrebbe potuto essere altrimenti – il finale affidato alla parkeriana
Quasimodo.
Una rassegna che si è distinta anche per la varietà di approcci al jazz proposti nelle varie serate, ciascuno con una sua propria connotazione, e tutte trasversalmente saldate a questa musica nelle forme espressive ed interpretative. E tutte qualitativamente ineccepibili: su questo, il distratto pubblico palermitano dovrebbe pur riflettere.
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Data pubblicazione: 02/01/2004
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