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Il mio incontro con il jazz
16/05/2008 21:56:07

Un adolescente degli anni ’70 ascolta “Chasing the bird”


La musica “leggera” italiana è un repertorio immenso di canzoni ed interpreti, creato assorbendo e metabolizzando i più disparati generi e stili musicali, talvolta sviluppando idee originali e creative, più spesso travisando e banalizzando, ma comunque contribuendo a diffondere, affiancata ai grandi successi internazionali, la cultura musicale “popolare” (nel senso di “non accademica”, extracolta) del XX secolo.
A partire dagli anni ‘30 la funzione di accompagnamento sonoro della vita quotidiana fu svolta quasi totalmente dalla radio, e soltanto dalla seconda metà degli anni ’70, stante l’aumento delle ore di trasmissione ed il proliferare di emittenti pubbliche e private, il televisore, col suo sottilissimo sibilo -che all’epoca percepivo distinto e fastidioso- scalzò progressivamente la radio fino a divenire la nuova “colonna sonora” nelle case, nei bar, nei negozi: alla musica -asse portante della programmazione radiofonica anche se introdotta o inframmezzata da parole- si aggiungevano, fino quasi a sostituirla, chiacchiere di salottieri, urla di imbonitori, effetti sonori da telefilm (in gran parte spari e stridore di gomme) e telenovelas (pianti e litigate), oltre naturalmente ai brevi jingles che introducono annunci pubblicitari ed alle voci, a quei tempi ancora foneticamente – e sintatticamente- corrette, dei notiziari.
Lo “sfondo sonoro” che ha accompagnato l’infanzia della mia generazione -sono nato nel 1960- era invece costituito principalmente dalle melodie rese celebri dalle voci dei vari Modugno, Celentano, Mina, Rita Pavone, Morandi, Leali e gli altri loro più o meno illustri colleghi; molto popolari, specie tra i giovani, erano anche alcuni gruppi musicali (Giganti, Equipe 84, Dik dik ecc.). Le canzoni, oltre ad essere spesso riproposte –talvolta con varianti inconsapevolmente comiche- da massaie canterine e garzoni fischiettatori, si potevano ascoltare in “originale” alla radio. Per quanto mi riguarda, possedevo poi una manciata di 45 giri, come la gran parte dei miei coetanei; meno frequente credo fosse il mio interesse (istintivo e non sorretto dalla minima conoscenza o pratica) per la musica classica, complice una raccolta di LP -“I grandi Musicisti” Fabbri 1965 (?)- che i miei genitori collezionavano diligentemente: così ogni giovedì pomeriggio mettevo sul piatto il disco “nuovo” e se spesso lo trovavo un po’ noioso (specialmente la musica romantica tedesca per pianoforte solo, o alcuni brani sinfonici), c’erano tanti dischi che mi piacevano molto (i quartetti d’archi quasi tutti, le sinfonie di Beethoven e Mozart, i Brandeburghesi e le suites per violoncello di Bach, e tanti altri…); talvolta poi mi piaceva fantasticare ad occhi chiusi, o infantilmente provare a ballare su “L’ uccello di fuoco” e difendevo la musica di Stravinsky dalle critiche di mia madre, che la trovava “fredda”; io non capivo molto cosa volesse dire, ma per me quei suoni erano una copiosa sorgente di immaginazione.

Negli ascolti della mia generazione non c’era comunque solo la musica leggera italiana: già alle scuole medie inferiori la cosiddetta “musica d’autore” aveva fatto la sua comparsa nei nostri ascolti (specialmente De Andrè, ma anche Dalla e Venditti), così come il pop-rock angloamericano. I fratelli maggiori dei miei amici adoravano Hendrix, o i Pink Floyd, ma ci consigliavano Emerson Lake and Palmer come alternativa ai vari Beatles, Rolling, Led Zeppelin, Who, Deep purple (so che qualcuno lo considera scandaloso, ma tutti questi gruppi gruppi, personalmente, non mi hanno mai entusiasmato: ho sempre trovato insopportabili le chitarre mal accordate e le voci stonatine dei Rolling stones di quegli anni, e, più in generale l’aspetto più pop della musica straniera non mi interessava molto: fra gli americani apprezzavo i Jefferson Airplane ma trovo fastidiosa la voce artefatta di Elvis, e la simpatia che posso provare per i personaggi non basta a farmi trovare gradevoli le cantilene di Bob Dylan o CSNY). Alla “pop music” di lingua inglese si affiancavano poi le versioni nazionali: Orme, PFM, Banco.
Più si andava verso l’adolescenza, più la tradizionale canzone italiana veniva considerata “da vecchi”, ed alle scuole superiori la musica diventava vero e proprio centro dell’aggregazione giovanile (in questo affiancata e spesso mescolata alla politica). I grandi concerti all’aperto – di sovente gratuiti- o in grandi strutture come i palasport e talvolta gli stadi, erano nei primi anni ’70 una novità per il nostro paese, ma divennero rapidamente appuntamenti attesi e condivisi da quei settori giovanili che si rifacevano alla cultura “alternativa” sviluppatasi principalmente negli Stati Uniti nel decennio precedente e/o alla cultura politica della sinistra italiana ed europea. Personalmente ricordo con tenerezza il mio primo “concerto”, nel 1973: Emerson, Lake and Palmer allo stadio Flaminio dove io, non ancora tredicenne, stavo sul prato dello stadio ad ascoltare i miei beniamini, e mia nonna mi aspettava sulle balconate, per riaccompagnarmi a casa… Ma è appunto nei due anni successivi, alle superiori, che la frequentazione dei concerti “pop” divenne per me sistematica: Ricordo tra gli altri i concerti Gentle Giant, Genesis, Yes, Soft Machine, King Crimson, in un palasport che solo un paio d’anni dopo sarebbe stato bandito dalla programmazione musicale, in seguito ai gravi incidenti con la polizia durante il concerto di Lou Reed.
Nel ’75 si apriva un triennio (che si concluderà abbastanza bruscamente con il sequestro Moro e le conseguenti misure di controllo del territorio e repressione). caratterizzato dalla fortissima e sempre più violenta contestazione giovanile. In quegli anni a Roma i “grandi” concerti con musicisti di fama internazionale non furono molti, e per la maggior parte promossi da organizzazioni politiche (partiti più o meno istituzionalizzati ma anche collettivi politici o associazioni culturali che erano in modo più o meno diretto legate al “movimento”). Qualcosa era cambiato, ed in quello che si chiamava “movimento giovanile” si era elaborata e sviluppata una feroce critica rispetto allo “show biz” legato ai megaconcerti ed al mercato discografico: il “sistema” riusciva a riassorbire, fagocitandole, le istanze “rivoluzionarie” espresse dagli artisti, ed a trasformare quelle in merci e questi in “stars”, di volta in volta virtuosi o istintivi, creativi o ripetitivi, egotici od impegnati, ma comunque “individui”, di fatto poco o punto legati alla realtà sociale che li aveva espressi e di cui erano, e/o si sentivano, rappresentanti. Se tale critica era sostanzialmente fondata, e da essa hanno preso il via tutta una serie di aspetti positivi –a cominciare dalla nascita delle etichette indipendenti e dei concerti autogestiti, l’eccessiva ideologizzazione (il tratto caratteristico di quegli anni) e la poca coerenza evidenziatasi in seguito tra principi e pratica di chi la teorizzava, la resero di fatto inefficace.
Sicuramente condizionato da tale contesto, ma altrettanto certamente annoiato dalla ripetitività e dai barocchismi del “progressive” che tanto mi aveva affascinato, stavo traversando un periodo in cui la musica non mi appassionava molto, ed i miei ascolti non erano rivolti alla musica internazionale, ma piuttosto ai cantautori (ne venivano fuori sempre di più, sull’ onda della moda) ed ai gruppi italiani, che aumentavano in numero e progredivano in qualità (si pensi agli Area), spesso rifacendosi al repertorio folk in maniera creativa ed innovativa (Napoli centrale ed in misura minore Canzoniere del Lazio), talvolta in modo tradizionalista, ma comunque di qualità (NCCP).

…Si, ma in tutto questo, il jazz? Ecco, appunto: non ne sapevo nulla, non lo ascoltavo e la parola aveva per me il senso di uno stile musicale abbastanza desueto, originalmente creato dai neri americani sviluppando blues e spiritual e sostanzialmente esauritosi intorno alla seconda guerra mondiale: la confusione al riguardo regnava sovrana (mi avevano detto che Louis Armstrong era jazz, ma anche George Gershwin e Benny Goodman, ed io stentavo a trovare le similitudini…) al punto che non ero neanche in grado di riconoscere come tali le sonorità e l’impostazione jazzistica delle colonne sonore di quasi tutti i cartoni animati e di molti film – anche italiani- o di tante sigle radiotelevisive. A posteriori mi rendo conto che, di fatto, sentivo molta musica che oggi definerei senza dubbio come “jazz”, ma in un certo senso non me ne rendevo conto; ad esempio non riuscivo a capire perché fosse definita jazz-rock la musica di gruppi che andavo ad ascoltare ed apprezzavo, come i Weather Report od il Perigeo; talvolta mi capitò di ascoltare del jazz “contemporaneo” (l’ascolto e la pratica musicale jazzistica erano già moderatamente diffuse, ed in continua espansione, ed ero io, stante i miei 15 anni, ad essere ignorante al riguardo), come quello che all’epoca proponeva Giorgio Gaslini, pur trovando interessante –ma anche un po’ faticosa- quella musica in gran parte improvvisata, non cercavo e non trovavo nessun legame con quello che credevo fosse “il jazz”.
Fu a scuola, dove si svolgeva un laboratorio “collaterale” sulla Beat Generation, che mi capitò per la prima volta di ascoltare attentamente del jazz moderno: i due pezzi proposti erano “Au-leu-Cha” e “Chasing the bird” di Charlie Parker; per me quella musica era del tutto nuova, a cominciare dal suono, e continuando con fraseggio ed andamento ritmico, per finire con la “melodia”: un contrappunto abbastanza complesso, e soprattutto molto inusuale, eseguito dai due fiati ad una velocità sostenuta… quando poi arrivavano i “soli” le linee melodiche mi sembravano assolutamente imprevedibili, e tuttavia sensate. Il “guaio” era fatto: quella musica di cui non riuscivo a capire – o memorizzare- quasi nulla, mi aveva stregato.
Così, mentre la maggior parte dei miei amici seguiva Patty Smith, i Police e Bob Marley, il mio rinnovato interesse per la musica era quasi interamente dedicato al jazz, che proprio in quegli anni viveva un momento di fortuna, sia per diffusione che per creatività: a mio parere, stante i limiti di alcuni interpreti allora di moda e le evidenti ingenuità che si possono ascoltare su dischi e concerti dell’epoca, la produzione jazzistica di quegli anni è caratterizzata da grande libertà espressiva e sincretismo musicale; così la stagione del free ha modificato profondamente il modo di fare ed ascoltare musica, anche e forse soprattutto in ambiti non jazzistici. Certo furono anni di grandi ed importanti concerti (memorabile fu umbria jazz 1976) di cui ero assiduo frequentatore, ed in breve tempo, rimediato un sax soprano, cominciai a studiare e praticare questa musica, oltre che a costruirmi, mano mano, una discreta raccolta di dischi e cassette.

In occasione di questo scritto, ho ritirato fuori dopo anni il cofanetto rosso che contiene le registrazioni di Parker per la Savoy in cinque vinili, ed ho trasferito in digitale i pezzi “galeotti”. Il riascolto è stato emozionante, ma per motivi affatto diversi che trentatré anni fa: oggi le frasi di Bird non sono una sorpresa, ma anzi spesso una piacevole conferma di qualcosa che già sappiamo…, il suono generale non sorprende per la novità, ma commuove per la sua “antichità”, e tuttavia la carica espressiva mi pare intatta, solo che viaggia su canali diversi, che in un certo senso ne alterano i codici…
Nei diversi “takes” dello stesso pezzo contenuti nel mitico cofanetto Savoy, possiamo sentire come i pezzi venissero mano a mano eseguiti più velocemente ed in modo più pulito, sia nel tema che negli assoli. Le piccole imperfezioni tecniche ed i fischi d’ancia di Bird, il senso quasi di timidezza che talvolta il suono di Miles ci ispira (…che fosse in soggezione?), gli assoli talvolta un po’ goffi della ritmica (nonostante si trattasse di Bud Powell, Tommy Potter e Max Roach), oltre agli errori e le conseguenti interruzioni del fonico, ci dicono molto di più che l’ascolto della sola versione poi scelta e commercializzata (in genere l’ultima); possiamo capire di più sia della registrazione in esame, (durante la quale furono incisi anche i brani “Cheryl” e “Buzzy”, oltre al capolavoro Donna Lee e che non si svolse in un’ atmosfera molto rilassata, come risulta da un ascolto attento e dallo stupendo opuscolo –in inglese- che accompagna i dischi) quella dell’8 maggio 1947, sia della personalità dei musicisti (alcuni veramente giovanissimi) coinvolti, sia più in generale sullo spirito ed il clima in cui vivevano i boppers negli ultimi anni ‘40.

Se trenta e passa anni fa furono la novità (almeno soggettivamente) della musica proposta, e la tecnica strumentale che mi catturarono in quel modo, oggi queste registrazioni d’epoca, veri e propri prodotti artigianali al confronto con le monerne e diffusissime tecnologie di registrazione digitale, riescono a suscitare una nostalgia per un passato mai effettivamente vissuto, ed a commuovermi per la dirompente umanità in esse contenuta.

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