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Una sera al Jamboree con Donald Harrison
di Vito Mancino


Non mi aspettavo che a Barcellona si suonasse tanto jazz e per di più di qualità.
Tutt'altro che vero. La città e i suoi dintorni contano un considerevole numero di jazz club e sale da concerto dove il jazz e la musica improvvisata sono di casa.
Una domenica sera, per dirne una, al
Jamboree jazz club c'era un certo Donald Harrison in testa al suo quartetto. Leader al sax alto, Jonathan Lefcoski al piano, Lluis Llario al contrabbasso e Osie Davis alla batteria.

L'atmosfera del Jamboree è suggestiva. Un piccolo palco cui gli artisti accedono tramite un arco così basso che sono costretti a piegarsi e, di fronte, una platea stile teatro. Tutto in miniatura.
Permesso, anzi consigliato, fumare.
Con un po' di fantasia sembra un jazz club newyorkese.

Attaccano con
Now's the time e dopo il tema Harrison si lancia in un solo lunghissimo che scalda gli animi. Frasi bop e tecnica notevole non bastano tuttavia a convincermi.
Il leader passa la palla prima alla batteria e poi al contrabbasso che mi sembrano ancora un po' legati. Altrettanto dicasi del piano.

Il secondo pezzo (un blues) è l'unico il cui titolo mi è rimasto ignoto anche perchè Harrison verso la metà del concerto, giunto il momento di presentare la sequenza delle composizioni, ha confessato di aver dimenticato quali brani e in che sequenza erano stati suonati.
Poco male.

Ciò che conta è che di fatto la musica inizia a cambiare. Il leader si scalda e sforna un solo spettacolare che strappa applausi alla platea e...non se lo fa ripetere due volte. Sferra di quelle frasi blues di un tempo con un tocco sanguigno e di tanto in tanto accoglie citazioni monkiane in un solo estemporaneo che convince quasi più di quello dell'alto. Poi è la volta del basso che tiene testa ai compari senza esitazione.
Il concerto va in crescendo, lo si percepisce dalla quantità di piedi che percuotono il pavimento e di dita che schioccano.

Harrison apre con un lungo solo su una inconfondibile minore armonica e fa salire la tensione ancora di più. Il pubblico incuriosito ed eccitato pende dalle frasi del suo alto e sembra implorarlo di scoprire le carte in tavola.
Ma Harrison preferisce tenerlo sulle spine e gioca con Monk, armonici e quarti di tono.

Quando percepisce la tensione al suo massimo si gira, fa un cenno alla band, et voilà dal cilindro sbuca
My Funny Valentine. L'applauso è garantito.
Sulla B del tema, mi sbaglierò, ma il sassofonista si perde. O forse lo rivisita in una chiave minimalista che tuttavia non è all'altezza della tensione creata in precedenza.
A risollevare le sorti del brano ci pensa Lefcoski che sfodera un solo dal lirismo magico. Suona senza strafare pur mostrando un'invidiabile tecnica e si becca un applauso meritato.

Altro brano. Stavolta è la batteria ad attaccare. Rock.
L'entrata del basso fuga i dubbi:
So what.
Come sempre il leader attacca il primo solo e questa volta è maestria, nulla da dire.
Chiunque abbia mai provato a cimentarsi nel compito di costruire un solo interessante su So What sa che non è impresa da poco. Harrison naviga a occhi chiusi. Suona fuori a volontà per rientrare quando gli pare e in tutto ciò trova spazio e tempo per duettare con la batteria che non lo molla un secondo. La platea è rovente.
La parola chiave della questione è interplay. Il pianista sferra i suoi colpi divertendosi e divertendo dimostrando definitivamente di essere un talento. Le frasi sono sempre pertinenti, le sostituzioni fanno sussultare e il suddetto interplay con il resto della ritmica raggiunge il culmine. Gli applausi scrosciano.

Su
I'll remember April, il pezzo successivo, i quattro ormai sono a velocità di crociera. Il piano dipinge le A di un bel sound Latin e la batteria si sgancia per un solo che lascia intendere la perizia di chi ci sta "lavorando". L'interplay continua magicamente: a 250 di metronomo la ritmica non perde un colpo e il piano e il sax intessono frasi disinvolte.
La platea è in fiamme.

Il brano successivo è totalmente improvvisato e vede ospite il gestore del Jamboree che emette dalla bocca suoni da campionatore. I musicisti si rilassano, ognuno fa un solo e il finale, momento tragico di queste occasioni è risolto brillantemente da Harrison che prima suona una frasetta e dopo la canta al microfono incastrandoci le parole baby you gotta go, riferendosi evidentemente alla percussione artificiale. L'interessato capisce e ad un cenno del capo tutto finisce. Niente male tutto sommato.

I musicisti escono ma il bis è scontato.

Siamo passati al filone improvvisazione pura e il leader comincia a suonare e cantare rap inventando i testi al momento e giocando con i presenti.
La band si fissa su di un pedale e il solito Lefcoski non si fa sfuggire l'occasione per un solo da capogiro.
Il batterista ne approfitta per sgranchirsi gli avambracci e fa vedere di quanta energia e tecnica dispone.
Acclamati dal pubblico, i quattro concedono un nuovo bis: si tratta di
If I were a bell.
Magistrale.

Se il quartetto vi capita vicino io vi consiglio vivamente di non esitare ad andare a sentirlo.
Vito Mancino

Jamboree
Plaza Reial, 17. Barcelona 08002
Tel. 93 319 17 89 Fax. 93 315 02 21
jamboree@masimas.com
http://www.masimas.com/jamboree/
 


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Data pubblicazione: 10/03/2002





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