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Melillo: il pianoforte uno e tri(n)o
di Daniele Cecchini

Parla un italiano pressoché perfetto, conversa con arguzia e ironia, si organizza il lavoro da sé: «penso io stesso a pianificare i miei concerti, scegliendo date e luoghi e gestendo le tournées. Ma nel fare ciò lavoro sempre con degli amici, tra i quali conto anche alcuni agenti. Questa specie di autarchia organizzativa è più difficile e richiede più tempo che non l'affidarsi a un manager, ma a me piace questa situazione di indipendenza, che mi spinge a darmi da fare per non rimanere inattivo».

Nei libretti di alcuni suoi CD, che ha scritto egli stesso, non manca di manifestare un umore pungente verso il malcostume musicale, fustigando a parole, prima ancora che con le note del suo pianoforte, le mode commerciali: «fui io stesso a volere scrivere le note di quei tre dischi [
Moonlight on the Gange, Bopcentric e Chet Lives; N.d.A.], per esprimere esplicitamente alcune considerazioni sullo stato delle cose nel mondo musicale, con un particolare riguardo per alcuni pregiudizi. Penso principalmente alle persone che presentano, propongono, organizzano o vendono la musica, che tendono a fare della propaganda che fa male alla musica. Il jazz è una musica democratica e aperta a tutti, e invece si cerca di ideologizzarla, di legarla all'idea di una presupposta musica nera o una musica bianca che da essa si differenzierebbe. Questa è una differenza che certo sussiste, ma non è fondamentale, come dimostra il fatto che nell'eseguire jazz musicisti bianchi e neri sanno integrarsi perfettamente; lo avevano già dimostrato Armostrong e Bix. A volte mi dispiace constatare che c'è più politica che musica. I veri proprietari del jazz sono le persone che suonano e quelle che amano questa musica».

Più note e meno idee non pertinenti con la musica: ecco un altro di quegli indizi che rendono Mike Melillo un caso particolare tra i suoi colleghi, i pianisti jazz statunitensi. Lo incontriamo a Bologna, dove si è esibito affiancato dal contrabbasso di Ares Tavolazzi in uno degli ultimi concerti del suo tour italiano. Mancano ancora due tappe di questo giro di concerti, ma Melillo è già rivolto ai suoi prossimi impegni statunitensi, che lo riporteranno alla dimensione prediletta del piano solo. Al ritorno oltreoceano lo aspettano le esibizioni settimanali al Deer Head Inn, jazz club dalla lunga tradizione del quale Melillo è l'house pianist. In questo locale a un'ora e mezza d'automobile da New York che dopo quarant'anni conserva ancora il suo originario aspetto di albergo in legno, Melillo, quando è in zona, si esibisce ogni domenica.

«Il Deer Head Inn è, per la capacità che ha avuto di mantenersi fedele alla sua impostazione, anche architettonica, originaria, una specie di istituzione per la vita e la cultura jazzistica in Pennsylvania. Per i pianisti, poi, suonarvi è un vero piacere: il proprietario del locale è, infatti, un accordatore. Non manca mai di controllare, oltre la pulizia dei bicchieri, quella del suono dello strumento presente nel locale. Già la costante perfezione del pianoforte rende il Deer Head Inn un locale diverso da gran parte degli altri club. In questo locale, ogni domenica faccio un concerto di solo piano durante il quale posso concedermi di fare un po' di esperimenti. È la dimensione del piano solo che mi consente di fare tante cose difficili a realizzarsi con altri musicisti se non si hanno lunghe prove assieme alle spalle. La scrittura al Deer Head Inn è per me una cosa assai importante, perché mi permette di concentrarmi sui diversi modi di intendere e praticare l'esibizione in solitudine, seguendo una ricerca che non è possibile con degli accompagnatori alle spalle, perché il gruppo, col basso e la batteria, comporta un ben diverso modo di suonare. Per sviluppare appieno questa diversità nella performance in solo, servono comunque prove, né più ne meno che se si suonasse in gruppo. Sono ora sei anni che sto affinando questo mio intendimento della solo performance: ne è venuto fuori un modo di affrontare questa dimensione del suonare che mi stimola a continuare a esibirmi in recital solistici, come faccio appunto regolarmente ogni domenica. Ora sto provando a trasportare questo recital dalla dimensione del jazz club a quella del vero e proprio concerto, negli Stati Uniti come in Europa. Questa cosa incontra però alcuni ostacoli, perché la gente spesso pensa che nel jazz, a parte i vecchi giganti come Fats Waller e Art Tatum, un pianista debba essere accompagnato. Non vogliono sentire il piano solo; vogliono la batteria, il basso, il sax, eccetera. Ci sono un po' di pregiudizi in questo senso. Io però non mi lascio sviare: i concerti in solo li faccio comunque. Difatti, non ho nessun problema con il pubblico; sono piuttosto gli agenti e gli organizzatori, che hanno un po' timore del piano solo, a crearmi delle complicazioni».

Una rudimentale concezione della vendibilità del prodotto, ideale di marketing più che artistico, ha avuto influenze anche sulla documentazione discografica di una parte del lavoro musicale di Melillo: «anche per quel che riguarda le incisioni discografiche il piano solo è per i produttori qualcosa di poco convincente, perché lo si vende di meno, non offrendo la stessa attrazione "spettacolare" delle formazioni più ampie. Ma sappiamo bene che non c'è alcun dato che possa sostenere un tale preconcetto sui rischi commerciali del piano solo. Si tratta di una presupposizione infondata, ma resta il fatto che la sottigliezza che traspare dall'esibizione pianistica in solitudine, il suo essere meno ovvia di una esecuzione in gruppo con contrabbasso e batteria, pare intimorire chi il jazz lo organizza e vende. Il piano solo richiede certo una maggiore attenzione, deve essere "ascoltato di più", bisogna tenere costantemente l'orecchio dentro la musica: la musica in solitudine è fatta di sfumature. Ed è proprio questo che mi piace di essa».

L'attuale idea di recital solistico di Melillo riunisce sotto il segno dell'improvvisazione jazzistica composizioni originali del pianista di Newark e materiali di varia provenienza: «ogni pezzo, oltre a fondarsi essenzialmente sulla libera elaborazione del materiale, richiede un diverso modo di suonare e, dunque, anche di improvvisare su di esso. Molti brani dei miei solo recital sono naturalmente mie composizioni. Per quanto riguarda il resto del repertorio, oltre che agli standard propriamente jazzistici mi rivolgo a brani non proprio fuori moda ma, come dire… ripescati da contesti marginali, come delle musiche orecchiate in un film, delle quali la gente probabilmente riconoscerà il motivo senza però riuscire a riconnetterlo alla sua origine».

Per opera della Red Records, dovrebbero presto essere nuovamente reperibili, riversati in CD, gli LP che Melillo incise in solo negli anni Ottanta per l'etichetta milanese: Sepia, del 1984 (LP Red Records VPA 170), e Live and Well, del 1985 (LP Red Records VPA 188), che a tutt'oggi sono i punti di riferimento discografici per ascoltare Mike Melillo in solitudine, col solo difetto di essere ormai da lungo tempo irreperibili. La riedizione di queste opere permetterà un più facile riscontro dell'evoluzione dell'arte solistica di Melillo. «È difficile esprimere a parole le differenze che intercorrono tra il mio modo attuale di affrontare il piano solo e le prove che ho dato in passato. Sicuramente il mio modo di sostenere un programma musicale da solo è sensibilmente diverso da quello di alcuni anni fa. Mi fa piacere sapere che un editore musicale intende riportare a disposizione del pubblico alcuni miei lavori oggi non più reperibili. Ma vorrei anche che il recupero del passato non fosse un modo per poter fare a meno delle novità. Sia dal punto di vista artistico che economico, bisogna anche correre dei rischi».

Dopo la realizzazione di
Sepia e Live and Well, Melillo non è più tornato alla dimensione del piano solo in ambito discografico, ma il desiderio in tale senso è assai forte: «dai tempi delle mie ultime incisioni in solitudine, e si parla di ormai quindici o sedici anni fa, la mia musica è molto cambiata. Ho suonato un concerto di piano solo in Italia, vicino a Brescia, su un pianoforte che non ho nessuna esitazione a definire il migliore sul quale mi sia mai capitato di suonare: un Fazioli, uno strumento dal suono davvero unico, quale non ha mai sentito altrove. Se c'è una cosa di cui posso rammaricarmi è di non avere provveduto a effettuare una registrazione di quella serata. Spero nel futuro di poter suonare ancora su un simile strumento; in tal caso, avrò l'accortezza di registrarmi. Sarei disposto anche a curare di persona questa cosa, se non trovassi un discografico disposto all'impresa».

«Per me l'esibizione solistica è come un'officina in cui si formano delle idee che poi troveranno un necessario sviluppo nelle formazioni in duo e trio. Per queste formazioni più ampie sono indispensabili gli spunti che trovo nella dimensione solistica. Ma se ho così espresso la mia particolare attrazione per il recital solistico, ciò non vuole assolutamente dire che suonare al fianco di altri musicisti non mi interessi. Tutt'altro!». L'esibizione in piano solo è dunque un punto di arrivo ma anche uno di partenza verso nuove esperienze in gruppo per Melillo, che iniziò la sua carriera pianistica come accompagnatore di grandi leader: negli anni tra il '62 e il '64, quando guidava il trio stabile del Top Room di Clifton, fu visitato da ospiti come Art Farmer, Coleman Hawkins, Clark Terry, Zoot Sims, Ben Webster, Freddie Hubbard, Grachan Monchur III, Chet Baker, mentre tra il '65 e il '67, anni di splendida forma per il saxophone colossus, suonò nel quartetto di Sonny Rollins e negli anni Settanta fece parte, con Steve Gilmore e Bill Goodwin, del quartetto di Phil Woods.

Nel tempo, Melillo è andato specializzandosi, oltre che nell'esibizione in solitudine, in quella in trio con basso e batteria e in duo, in questo caso secondo una variegata serie di abbinamenti strumentali. «Secondo me, il duo è la situazione più difficile in cui suonare, più del trio e più ancora che in solo. Il duo è impegnativo perché si devono indovinare i pensieri dell'altro musicista, capendo le svolte che imprime alla "drammaturgia" del pezzo che si sta suonando. Ma nella difficoltà del suonare in duo, senza batteria, sta anche il gusto di una sfida. Tra i musicisti con cui ho suonato in duo mi sono trovato particolarmente a mio agio con Ares [Tavolazzi], per la sua spiccata sensibilità musicale». Assieme a Tavolazzi, Melillo ha inciso
Chet Lives (CD Philology W 184.2), omaggio al trombettista-cantante assieme al quale Melillo si è esibito in più occasioni: «conoscevo Chet dal 1960, se non addirittura un po' prima. Di regola i nostri rapporti furono eccellenti sia a livello professionale che personale. Certo c'erano alcuni problemi ‘di tempi': talvolta Chet, negli orari delle prove e le esibizioni, si trovava da tutt'altra parte che il luogo stabilito. Ho suonato con lui ancora a un anno dalla sua scomparsa. Tra gli ultimi progetti realizzati assieme, ricordo il lavoro che mi fu commissionato dalla Soul Note: si trattava di alcuni arrangiamenti per grande orchestra e tromba solista da eseguire in una serie di sei o otto concerti, dai quali è stato poi tratto l'album Symphonically (CD Soul Note 121134). Ho poi riproposto quegli arrangiamenti, modificandoli leggermente, a Praga, alla fine degli anni Ottanta, con un'orchestra da camera praghese e un solista alla tromba anch'esso del luogo. Di quest'esperienza posseggo una registrazione meritevole d'essere pubblicata. Vedremo se sarà possibile».

Tra i più stimolanti incontri in duo di Melillo, troviamo poi quello con Massimo Urbani, documentato in un disco Philology del 1987: Duets for Yardbird (CD Philology W 244 4), con la sua collezione di classici del repertorio jazzistico, e quello con Franco D'Andrea, all'origine del recente disco Timeless Monk (CD Philology W 172), tutto incentrato sulle composizioni, e non solo quelle più "risuonate", del pianista eponimo. «Il duo con doppio pianoforte è una formazione particolarmente impegnativa, direi difficilissima da sostenere. Lo stesso accade nel duo con pianoforte e chitarra, un altro strumento da accordi. In questo caso non posso non ricordare un mio carissimo amico, purtroppo non più tra noi: Harry Leahy (Plattsburgh, NY, 1 set 1935 - 12 ago 1990). Suonare con lui è stata una delle più significative tra le mie esperienze. A mio avviso si trattava di un genio della chitarra. Con lui suonavo seguendo una tecnica di "scambio" degli accordi e i temi, cosicché non succedeva che ci si sovrapponesse nell'esecuzione di parti identiche; evitavamo accuratamente i raddoppi, che spesso producono una sorta di interferenza, di rumore tra gli strumenti. Ritornando al disco con Franco D'Andrea, mi pare molto ben riuscito: si sentono due pianisti con stili diversi che suonano assieme e non un pianista con quattro mani. In tal modo questo strano duo funziona bene».

Riguardo al futuro, Melillo non pare avere intenzione di continuare nella ricerca di organici insoliti, quanto piuttosto di affinare i mezzi espressivi del suo trio: «la collaborazione con D'Andrea avvenne per un'iniziativa della casa discografica Philology. A me non era mai balenato per la mente di suonare in duo con un altro pianista! In questa direzione non ho per il momento altri programmi da realizzare. I miei prossimi progetti riguardano piuttosto il mio trio americano, col quale non sono mai venuto in Italia. Nel vostro Paese mi sono sempre esibito con musicisti italiani, coi quali mi sono sempre trovato perfettamente in sintonia: Ares Tavolazzi, Massimo Moriconi, Giampaolo Ascolese, Luigi Bonafede, Rosario Bonaccorso. Non si fa certo fatica a trovare buoni musicisti con cui suonare in Italia! Mi piacerebbe però portare il mio trio statunitense in Italia per dei concerti. Suoniamo assieme da trent'anni, e da altrettanti siamo fermamente amici. Ma il problema è sempre il solito: i costi che si devono affrontare per portare dei musicisti a esibirsi oltreoceano».

Tra i progetti ai quali Melillo tiene di più vi è la pubblicazione di un disco col trio composto assieme a Roy Cumming al contrabbasso e Glenn Davis alla batteria. Si tratta di una registrazione dal vivo realizzata il 7 luglio del 2000 in quel Deer Head Inn di cui Melillo è il "pianista di casa". In Live at the Deer Head Inn tre composizioni originali di Melillo (tra le quali Recycle) si alternano a sempreverdi di Ellington (The Mooche), Rodgers (You Are Too Beautiful) e Porter (Ça c'est l'amour). «Si tratta di una registrazione che ho curato personalmente, nel "mio" jazz club in Pennsylvania. Ho affidato il master a Sergio Veschi della Red Records, ma per il momento nulla è ancora stato deciso in merito alla sua pubblicazione».

In attesa che qualcosa si muova in casa Red, chiediamo a Melillo un commento sulla sua più recente incisione in trio, realizzata proprio per Red Records: Bopcentric (CD Red Records 123279 - 2), inciso nel 1998 con lo stesso trio, con Massimo Moriconi al contrabbasso e Giampaolo Ascolese alla batteria, già protagonista di Alternate Changes for Bud (CD Red Records 123211.2), del 1987. «Ogni disco è un'idea nuova. Bopcentric non è Moonlight on the Gange [inciso nel 1994 per la Red Records in trio con Michael Moore al contrabbasso e Ben Riley alla batteria (CD RR 123264.2); N.d.A.]. Ogni album vive di una sua concezione musicale».

Quanto alla combinazione di composizioni di Thelonious Monk e Herbie Nichols, separate da un brano originale di Melillo, «Sergio mi chiese di pensare un'idea particolare per un disco. A me venne in mente di accostare quelli che ritengo i due musicisti più eccentrici del jazz degli anni Quaranta e Cinquanta. Monk e Nichols sono fuori dal bebop; l'originalità della loro musica risiede proprio nel non risolversi esclusivamente all'interno delle formule di questo stile. Non si può dire che il bebop sia del tutto assente dalla musica di questi due musicisti, ma i suoi schemi sono portati avanti con un modo di suonare irregolare. Monk non suona affatto come Bud Powell, mentre Nichols suonava spesso con cantanti e musicisti legati agli anni Trenta. Allora ho inventato il termine "Bopcentric" che fonde assieme il termini "bebop2 ed "eccentric"». La rivisitazione che Melillo ha fatto dei brani di questi due irregolari del bop trova la sua massima coerenza e punto di forza nel non cercare di normalizzarne lo stile; Melillo non rilegge Monk e Nichols alla luce del bop: «io suono la musica come la sento, pensando ai concetti che ci sono stati tramandati dal compositore, senza pensare a categorizzarla in base agli stili del jazz. Una nuova lettura pienamente jazzistica nasce dall'incontro tra l'idea che un compositore ci ha lasciato della sua musica e il mio modo di suonare. Il jazz nasce nella differenza tra ciò che sta scritto sulla carta e ciò che si ricrea nel momento dell'esecuzione. Lo stile adottato non è tutto».

Quanto poi al trio con Moriconi e Ascolese, «ci sono alcuni brani che ho eseguito in una session con Massimo e Giampaolo, alla fine degli anni Ottanta: sono decisamente delle ottime esecuzioni, ancora inedite e davvero meritevoli di venire affidate ufficialmente al disco. La registrazione fu curata da Massimo Moriconi e il nastro è ora in mano sua».

Daniele Cecchini


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Data pubblicazione: 10/09/2002





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