THE DRUMS IS A WOMAN!
Intervista a Ellade Bandini
di Ernesto D'angelo
photo by Nicola Dell'Olio
Ellade Bandini è
semplicemente la storia della batteria nella musica leggera italiana e non
solo. Figlio di quella Emilia-Romagna che rappresenta(va) con le sue balere la
miglior tradizione orchestrale dell'intero panorama italiano, per intenderci il
liscio, gli slow ed anche il "gezz". Quella stessa Emilia-Romagna che tra gli
altri ci ha donato sensibilità percussionistiche come quelle di Gianni Cazzola
e Giulio Capiozzo. Il nostro è un entusiasta della vita e vive la musica con la
genuinità dell'eterno ragazzo, ma anche col rigore del professionista serio e
dell'artista che si accalora per alcune questioni cruciali che lo coinvolgono.
Passionalità che emerge in ogni sua dichiarazione, comunque temperata da una
"ratio" e da una profondità uniche.
Lo abbiamo
incontrato nei giorni seguenti al suo seminario tenuto al Kabala Club di
Pescara culminato con un concerto serale.
E.D.: Innanzitutto so che sei nato a Ferrara, ma
esattamente quando?
E.B.:
Nel
1946, precisamente il 17 luglio, quindi
ad un anno dalla fine di un periodo bellico che nessuno vorrebbe più
vedere, ma che purtroppo non è mai stato così tristemente presente come in
questo periodo.
E.D.: Ho letto in una tua intervista che il tuo primo
incontro con la batteria è avvenuto ascoltando, nei tardi anni '50, il sestetto
Basso-Piana-Valdambrini con Gianni Cazzola ai tamburi. Cosa colpì il giovane Bandini di quel modo
"strano" di accompagnare?
E.B.: Non dimentichiamo Giorgio Azzolini al contrabbasso
e Renato Sellani al piano! In Italia, negli anni '50, la musica che passava la
radio consisteva essenzialmente in Jumbalabey di Gino Latilla,
Usignolo di
Giorgio Consolini, Al di là di Luciano Tajoli, Tipitipititso col Calypso
di Betty
Curtis: tutte beguine, e ritmi latini suonati con campanaccio, guiro, bongos e timbales.
Di Cazzola mi colpì quello che allora noi chiamavamo il "piatto volante", il
ride cioè, che avvolgeva tutta la musica, permettendo al rullante ed alla
cassa, con lo hi-hat che marcava il 2 ed il 4, di effettuare interpunzioni
ritmicamente interessanti e per me, allora, nuove. Insomma, il patrimonio che
ci ha lasciato Kenny Clarke! Questo però l'ho capito dopo. Allora sapevo solo
che mi piaceva tantissimo.
E.D.: Raul Ferretti è stato il tuo primo insegnante;
cosa ti ha insegnato veramente? Dico così perché in un tuo recente seminario lo
hai definito una figura piuttosto "sui generis". Quasi gobbo (una sorta di Chick Webb ferrarese), per nulla "batterista", capace d'inventarsi uno strano
macchinario elettrico rudimentale che faceva suonare il rullante da sé, ma che
una volta si inceppò facendo scoppiare un finimondo...
E.B.: Devo dirti che Ferrara era allora un incredibile
crogiolo di personalità eccentriche ed uniche, con nomi altrettanto bizzarri
come Aimone, Musico, Civedo, Pateccia, etc. Raul
Ferretti era un tipico prodotto di quell'ambiente. Non era quasi gobbo. Era più
che gobbo! Oltre alla classica posteriore, ne aveva un'altra sul petto. Fai
bene a paragonarlo, non solo fisicamente, a Chick Webb. Stessa energia e
capacità di stare al passo coi tempi. Era il miglior batterista di
avanspettacolo che l'Italia di allora avesse. Molto musicale, con a fianco una
vita piena di depressioni, delusioni e solitudine, cioè tutto ciò che serviva
per fare di un musicista un vero artista!
E.D.: Nell'Italia post-bellica di allora, un Ferretti sapeva chi
erano i vari Webb, Krupa, Wettling, Jo Jones, Singleton, Bauduc, Dodds, o
almeno sapeva interpretare per sommi capi gli stili di questi ed altri maestri
del periodo? Se no, su che cosa basava il suo insegnamento?
E.B.: Krupa lo conosceva di sicuro. Anche perchè negli anni '50 in Italia arrivò il
film su di lui The Gene Krupa Story interpretato da Sal
Mineo (in Italia col titolo Ritmo
Diabolico). Comunque Ferretti era stato in America, ma non saprei dirti se
conosceva i nomi che hai fatto. Lui era un violoncellista diplomato e di
riflesso suonava bene anche il contrabbasso.
A me assegnava esercizi di
quartine sul rullante con diteggiature davvero messe lì a caso e con la cassa
rigorosamente in quattro. Le lezioni si tenevano dalle 21 alle 23 nella sua
stanza in affitto, coi muri arricchiti
dai suoi quadri e con una bottiglia di rosso già vuota a metà che non avrebbe
visto la mezzanotte.
E.D.: Quali ritieni che siano le tue caratteristiche
peculiari sullo strumento?
E.B.: Io ho con la batteria un rapporto molto fisico.
Passionale... Ogni volta che mi siedo, mi dico sempre: "Ellade, cerca di non essere
ripetitivo! Non devi mostrare nulla. Pensa solo alla musica". Mi faccio
questo strano training autogeno, perchè la batteria è "una donna", come diceva
Ellington, da amare, rispettare, carezzare; ma può anche essere una tigre da
domare, o un mare in tempesta dove non sai se ti salverai. In fin dei conti un
bellissimo strumento, che, se suonato con devoto rispetto, serietà, amore,
risalta per ancestrale fascino, viceversa solo un terribile casino, molto poco
piacevole!!!
E.D.: Sei uno specialista dell'uso delle spazzole, che però
non hai imparato seguendo metodi, bensì obbligandoti durante un tour con Paolo
Conte ad usarle. Non pensi che quello che manca ai giovani d'oggi sia proprio
un approccio "povero", che c'è una tendenza a privilegiare certo professionismo
piuttosto che l'artigianalità?
E.B.: Sono arrivato a questa, come dici tu, artigianale
conclusione, osservando un fatto: gli specialisti di questi accessori – Blakey,
Manne, Philly Joe, Papa Jo, Clarke, Haynes, Elvin, etc. – non suonano nello
stesso modo, ma ognuno di loro risulta essere riconoscibile e differente
dall'altro, il che mi fa pensare che non esiste un sistema vero e proprio. Così
anch'io mi sono costruito una sonorità con le spazzole, per così dire "naif",
anche se onestamente e sinceramente debbo affermare che non mi ritengo uno
specialista, come lo è, per esempio, Stefano Bagnoli.
E.D.: Tempo fa hai parlato di una via italiana allo
strumento. E' possibile ipotizzarla e se sì, in che cosa si caratterizzerebbe?
Tullio De Piscopo, il compianto Giulio Capiozzo e, in ambito extra jazzistico,
Agostino
Marangolo, hanno sempre sostenuto che il nostro modo melodico risulta unico…
E.B.: L'Italia è stata ed è
piena tuttora di grandi musicisti. Anzi il mondo è pieno di grandi musicisti
italiani, quasi sempre i migliori. In un seminario tenutosi a Vittoria, vicino
Ragusa, parlai di un fatto accadutomi a Vina del Mar, in Cile. Era il 1977 ed
io ero là ad accompagnare un artista pop italiano, con un tipico quartetto
"chitarra, basso, batteria e tastiera 'Solinas'. Sotto il palco una grande
orchestra di circa sessanta elementi, con alla batteria un certo "Pato" che
lavorava di solito al "Caesar's Palace" di Las Vegas, il quale rientrava in
patria ogni anno per quella particolare occasione. Diventammo molto amici ed io
sedevo spesso in buca vicino a lui per osservarlo. Mi resi subito conto che era
un mostro: lettore di difficilissime partiture a prima vista, tecnico mirabile
che metteva i rulli "alla Cobham" in tutti i brani, anche in un bolero lento.
Quindi mi sorpresi io per primo quando lui volle che gli spiegassi il sistema
di lanci molto larghi sui tom. Dal suo punto di vista erano inconcepibili. Sto
parlando dei tipici passaggi semplici, italiani, fatti apposta per accompagnare
un brano della nostra tradizione. Infatti, io penso che proprio la bellezza
delle nostre melodie italiane, che richiedono poco ma fatto con gusto, fosse la
causa di un aspetto rilevato dallo stesso Pato: in televisione, pur essendo in
quattro sembravamo in 40, mentre l'orchestra risultava avere un impatto sonoro
da piccolo gruppo. Agostino Marangolo dice sempre che se sapessimo sfruttare,
senza danneggiarlo, un certo patrimonio musicale italiano (ogni regione ne è
piena), potremmo avere un posto molto importante nel panorama internazionale.
E.D.: Chi ritieni tra i giovani un possibile erede di Ellade
Bandini, o comunque qualcuno capace di dare un contributo musicale che riesca a
coniugare italianità ed originalità ?
E.B.:
Ti ringrazio per le belle parole. Ma ti dirò che non so farti dei nomi di miei
possibili eredi perchè sto ancora imparando io e sono costantemente influenzato
da tutti i miei colleghi bravi, giovani e meno giovani, che vedo suonare. Nomi
te ne potrei fare a decine, come il grande Tullio De Piscopo (davvero di
livello mondiale. Sa cosa vuole il pubblico e come offrirglielo), il compianto
Giulio Capiozzo. Chi non è stato incollato di notte con la cuffia ad ascoltare
gli AREA ed il suo facile modo di affrontare i tempi dispari? E poi Franz Di
Cioccio, Walter Calloni, Gianni Dall'Aglio, il pazzesco Alfredo Golino,
Agostino Marangolo (con il quale ho l'onore di fare dei seminari. Sempre pieno
di iniziative e creatività), Max Furian (eternamente ossessionato da quanti tom
tenere per poi toglierli tutti), il grande Lele Melotti, Christian Meyer (che
in un recente "drum contest" tenutosi durante una fiera di strumenti musicali a
Rimini, ha distrutto per intelligenza e musicalità del fraseggio, due "mostri
sacri" come Akira Jimbo e Sonny Emory, ancorati ai loro ripetitivi pattern).
Elio Rivagli, Maurizio Dei Lazzaretti, Furio Chirico, Walter Martino. Tra i
giovani Giovanni Giorgi, Mariano Barba, Eugenio Mori, Riccardo Lombardo,
Roberto Gualdi. Nel Jazz sicuramente
Roberto Gatto (molto quotato anche a
livello internazionale), Giampiero Prina (pertinente e musicalissimo),
Massimo
Manzi (un grande in ogni senso), Paolo Pellegatti (va pazzo per il Milan, Roy
Haynes e Billy Hart), Alfred Kramer, Enzo Zirilli, Stefano Bagnoli,
Mauro
Beggio. Quindi potrai renderti conto che di creatività ce n'è da inflazionare.
Purtroppo ogni cosa oltre al suo lato positivo, ne ha uno negativo. Forse però
è meglio che mi fermo qua, sennò...
E.D.: No, no!
Continua pure...
E.B.: Allora ti dirò che ritengo gli italiani capaci di
essere grandi scrittori, pittori, artisti, scienziati, inventori, ma anche
"gangster", purtroppo tra i migliori in assoluto, ed anche "inutili buffoni".
Ahinoi, quest'ultima categoria si è sparsa soprattutto in politica e nel mondo
musicale. Discografici inutili buffoni, produttori inutili buffoni, gente
dannosa ed inutile che con l'inconsapevole menefreghismo ignorante dei politici
ha inquinato forse in modo irreversibile un'arte così grande come la musica.
Credo proprio che la differenza tra questi signori ed i terroristi è data
soltanto dalla mancanza di danni fisici. Ma poi ritornano tali per i danni
causati alla sensibilità ed al buon gusto. Questi signori non hanno dato e non
danno possibilità ai musicisti che abbiamo, obbligandoli, come già è successo
agli scienziati, a cercare all'estero lo spazio per esprimersi e lasciando la
musica (solo perchè così viene convenzionalmente chiamata il susseguirsi di
note), in Italia, in mano a personaggi che converrebbe ascoltare il 32 di ogni
mese!
E.D.: Ci vai giù duro, eh?
E.B.: Il fatto è che il mestiere che faccio, mi ha
portato a conoscere tanti artisti, molti di questi erano e sono rimasti degli
idoli per me. Ma chi li gestisce...! Ho visto musicisti stranieri fare i
capricci perchè magari non c'era una poltrona in studio per poter dormire o
perchè in albergo non c'era, nella loro camera da 300.000 lire a notte, il letto
matrimoniale. Mentre noi italiani, chiamati a rifare il brano inciso dal
musicista suddetto, pagati la quinta parte di quest'ultimo, finito il lavoro
alle due di notte, dovevamo fare 200 chilometri
per tornare a casa, magari con la nebbia, perchè non ci veniva pagata
nemmeno una stanza in una pensioncina di passaggi amorosi.
E.D.: Passiamo all'aspetto più artistico della tua professione.
Essenzialmente sei un musicista da sala d'incisione, di estrema sensibilità
anche jazzistica (ricordo per tutti il tuo gioco di spazzole in
When Your
Lover Has Gone
di Mina).
C'è una connessione tra i due stili batteristici?
E.B.: Io credo che tutto stia nella scelta delle
collaborazioni a scapito, sovente, di più congrui guadagni. Da un certo momento
in poi sono stato molto attento alla qualità delle mie collaborazioni e vorrei
percorrere questa strada sempre di più.
Quindi non è un problema prettamente
musicale. C'è una connessione se quell'idioma è parte di te.
E.D.: Restando in tema: Steve Gadd con Corea e
Petrucciani, Jim Keltner con Bill Frisell e, all'inizio della
carriera, Gabor Szabo, hanno dimostrato che il session man può risultare
molto creativo nel jazz, proprio per la sua diversità d'approccio. Quanto può
dare tale eterodossia allo sviluppo artistico di una forma d'arte come il jazz,
bastarda per antonomasia, senza scadere in quel prodotto preconfezionato che si
chiama "fusion"?
E.B.: Negli anni '70 ed
'80 ho ascoltato la prima fusion
quella dei Chicago, dei Blood, Sweat and Tears, dei Dreams. Brani che
contenevano il giusto mix di vari generi come Spinnin' Wheel, School Days
di
Stanley Clarke, l'album Spectrum, di Billy Cobham e soprattutto i brani degli
Headhunters di
Herbie Hancock, con i grandi Harvey Mason e Mike Clarke. Poi questo genere è
giunto a gruppi come Casiopea, Uzeb, etc., roba che non riuscirà a piacermi
mai. Solo gli Yellowjackets mi garbano. Perchè in loro il senso dell'avventura
in musica e lo swing è rimasto abbastanza intatto rispetto alla fusion
primigenia. Per conto mio, amo il jazz sempre di più. E credo che tale
crescente e mai esaurito amore stia nel fatto di averlo praticato molto di
rado; quindi non mi sono mai annoiato di uno stile che magari può nauseare uno
che lo vive a tempo pieno da trent'anni. Con Mina, per esempio, ho avuto modo
di suonare cose che prima snobbavo, come le ballads, che suono oggi, invece che le esperienze musicali
che preferisco. Con lei, inoltre, ho capito tante altre cose, anche grazie ai
compagni di viaggio che ho trovato, gente straordinaria come Renato Sellani,
Massimo
Moriconi, Danilo Rea, che mi hanno spiegato altri aspetti della musica; che un
rullante con le spazzole, suonate in un certo modo, fa dei tamburi uno
strumento armonico. E qui arriviamo a Gadd: lui, sovente accusato di ripetersi
(ma Elvin, Blakey, Philly Joe, non si ripetevano?), oppure di essere troppo pulito, troppo
commerciale, etc., ha portato le sue esperienze extra jazzistiche proprio nel
jazz, arricchendone il vocabolario e la sensibilità. Corea e l'ultimo
Petrucciani ne sono la prova. Poi Gadd suona il Jazz-jazz infinitamente meglio
di come potrebbero suonare la musica pop molti grandi jazzisti... Visto che è
così facile! Keltner è un altro che testimonia come un elemento estraneo,
almeno nella consuetudine, al jazz possa portare cose nuove. In questi giorni
l'ho ascoltato con Bill Frisell e lo trovo estremamente creativo, geniale in
alcuni momenti.
E.D.: Torniamo all'Italia. Ed al suo passato. Negli ultimi anni
abbiamo perso Gilberto Cuppini, Naco, Enrico Lucchini e
Giulio Capiozzo. Ce li vuoi ritrarre brevemente, sottolineando ciò che
hanno rappresentato per te e quello che ti hanno lasciato?
E.B.: Tenendo presente che non dovremmo dimenticare nemmeno Beppe Sciuto
e Giancarlo
Pillot. Gil Cuppini l'ho conosciuto perchè veniva spesso in RAI a Milano,
quando lavoravo per una trasmissione televisiva negli anni
'80. Lo incontravo
spesso al "Capolinea" di Giorgio Vanni, del quale Cuppini tesseva le lodi,
dicendo che a lui si doveva il passaggio di alcuni musicisti dal rango di
"suonatori da night" a jazzisti. Mi rispettava, ma sempre con una certa
distanza. Fu vedendomi al lavoro con l'orchestra della RAI, alternato ad
Alfredo Golino, ad aumentare notevolmente il rispetto nei miei confronti. Che
dire poi di Naco? Incontrarlo e trovare un amico vero; il miglior amico,
probabilmente, che ho avuto in questo ambiente. Una sera, io e
Roberto Gatto,
avevamo un appuntamento in un ristorante milanese. Lui, avendo una serata di
"day off", mi racconta che era rimasto solo perchè sapeva che c'era un concerto
del gruppo "Outrolado" di cui Naco era il percussionista. "Devi assolutamente
sentirli" fu il laconico
imperativo, non solo di Roberto, ma anche di Meyer, Furian e Beppe Cifarelli
che andavano in un locale, "Il Leoncino", per vedere questo gruppo. Purtroppo
in quel periodo ero quasi sempre in studio e non fu mai possibile per me
andarli ad ascoltare. Finalmente me lo ritrovai accanto, sul palco, durante il
tour di Fabrizio De Andrè "Le Nuvole", nel biennio 1990/1991. Ci presentammo e da quel
momento ci sentimmo per telefono, se non ci vedevamo, tutti i giorni. In più ci
riempivamo le segreterie telefoniche di battute; io lo chiamavo Youl (come
Brynner, visto che era rasato a zero), lui Ernest (come Hemingway, per le mie
bevute di Coca e Bacardi e la barba bianca). Era speciale, anzi lo è ancora,
come pochi al mondo sono. Talmente bravo che non sentiva nemmeno il bisogno di
mostrarlo. Non passa giorno che non penso a lui…
Di
Enrico Lucchini - il più grande maestro di batteria che l'Italia ha mai avuto -
conservo un ricordo particolare, che risale a quattro mesi prima della sua
morte. Andai a casa sua e stetti lì un giorno intero. Un bel posto da dove si
vedeva il lago. Io ero in crisi. Lui anche ed in più, probabilmente, sapeva già
del male che aveva. Fece un buon piatto di spaghetti al pomodoro, bagnato da un
eccellente "cabernet" e ci mettemmo ad ascoltare un vecchio "live" di Coltrane
con Roy Haynes ai tamburi.
Ascoltammo per 5 volte consecutive il secondo brano del CD senza proferir
parola, semplicemente sorridendo, facendo facce sorprese ed approvando con la
testa il capolavoro che stavano costruendo Trane ed Haynes. Eravamo in crisi ma
la musica è grande e ci scaldò i cuori e l'anima. Lo sentii telefonicamente per
altre tre o quattro volte. L'ultima, mi salutò pregandomi di non chiamarlo più.
Lui era il "bastian contrario", il burbero brontolone; però quando vedevi dei
ragazzi che suonavano con un'impostazione invidiabile, per l'80% erano stati allievi di Enrico.
Quando incidevo al "Cap Studio", sala attigua al "Capolinea" (dove lui
insegnava), ogni tanto me lo vedevo arrivare, ed io cercavo di scusare la mia
impugnatura "naif". Ma la sua reazione era sempre identica: "C..., non rompere
i c..., fai suonare questa c... di batteria da far paura. A proposito, quando
hai tempo sali su che ho un paio di 'bocia' ("ragazzini", in milanese, n.d.r.) da farti
sentire". I "bocia" erano un Christian
Meyer di 11 o 12 anni, che suonava gli assolo di Buddy Rich senza fare una
piega ed un Elio Rivagli di 17, che elaborava frasi di un noto metodo, facendo
discorsi ritmici sempre nuovi. Dopo, quando i ragazzi andavano via, Enrico mi
mostrava gli studi che stava facendo. Roba per pochi. Tanti insegnanti di
questo strumento parlano di queste cose. Lui le faceva realmente vedere.
Io
e Giulio Capiozzo siamo stati buoni amici. Lui veniva spesso a Ferrara per i
rapporti di lavoro che aveva con Ares Tavolazzi (Mitico bassista degli Area. Ancora
attivissimo come contrabbassista. N.d.r.). E, quindi, veniva a mangiare a
casa mia il pollo alla cacciatora preparato da mia madre. E' stato il musicista
che ha portato avanti, culturalmente parlando, il discorso più "alto",
coincidente con un periodo storico irripetibile. Aveva un suono ed un fraseggio
unici per melodicità e consistenza. E come ti ho già accennato, fu tra i primi
nel mondo a suonare con agilità e semplicità i tempi dispari. Negli ultimi
tempi era triste ed incazzato perchè, secondo lui, non aveva raccolto molto di
quanto aveva seminato; rincorrendo treni per tutta l'Italia. Quando ci vedevamo
compravamo insieme i 'practice pad' (le superfici gommate usate
dai batteristi per esercitarsi, inventate dal mitico Billy Gladstone, storico
drummer "broadwayano", negli anni '30 – n.d.r.). Il suo dopo un mese era
inservibile, il mio quasi inutilizzato.
Perdonami
se mi sono dilungato, ma queste persone sono state così importanti per me e per
la musica italiana tutta, che risulta
impossibile ritrarre brevemente chi è stato così grande !
E.D.: Già che
ci siamo cosa si potrebbe fare per non condannare al dimenticatoio persone come
Gegè Munari, Gianni Cazzola, Lino Liguori, Antonio Golino,
Franco Tonani, Pupo
De Luca, etc. ?
E.B.:
... per non tacere di Lionello Bionda che è stato
il batterista, per anni, insostituibile nel panorama musicale italiano. O
Giancarlo Pillot. Di una gentilezza che sembrava un principe. Ha suonato tanto
grande jazz…! Il problema è che spetta alla stampa specializzata non
dimenticare chi ha dato così tanto all'arte. E' snervante sentire che 'la
rivista non vende', se metti un servizio su uno che ha fatto la storia italiana
dello strumento. Allora, dico io, chiamate la vostra rivista "La Batteria
Americana". Comunque, qualcosa si sta muovendo. Non sai l'emozione provata
quando io, Marco Volpe e Mario Riggio (uno tra i migliori insegnanti italiani di batteria, il primo;
ottimo giornalista di settore e sanguigno strumentista, il secondo – n.d.r.), siamo
riusciti ad intervistare Pasquale Liguori, il mitico Lino, uno dei grandi
dell'Italia del dopoguerra, capace anche di cimentarsi col free con risultati
eccellenti. Ultimamente, con Tullio De Piscopo, stiamo facendo qualcosa per
andare a trovare e possibilmente intervistare, anche i "grandi pionieri" Gegè
Di Giacomo (storico batterista di Carosone) ed il maestro Ulderigo (mitico batterista
degli 'Asternovas' di Fred Buscaglione). Quest'ultimo rintracciato
telefonicamente, dopo ripetuti ed infruttuosi tentativi, si è molto commosso
per essere stato ricordato da qualcuno. Insomma, bisogna informare, i giovani
soprattutto, su questo patrimonio che abbiamo. Ed agli insegnanti di questo
strumento dico pure che devono fare studiare, oltre ai grandi d'importazione,
anche NOI!
E.D.: Hai suonato con grandi jazzisti quali Konitz, Woods,
Garrett, Nocella, etc. Con quali ti sei trovato più a tuo agio e cosa ti hanno
lasciato musicalmente?
E.B.:
I tre che ricordo con maggiore intensità sono
Larry Nocella, Lee Konitz e Phil Woods. Larry si arrabbiava spesso con me!
Effettivamente ero abituato molto meno di adesso a suonare jazz e non succedeva
mai ciò che lui voleva fare accadere. Quando non beveva si scusava dicendomi "Ellade, m'incazzo perchè so che puoi dare di più. Ma non succede mai niente.
Lasciati andare!!!". Era una persona intelligentissima e nei momenti buoni
era un piacere sentirlo parlare.
Lee Konitz invece, lo incontrai grazie ad una
telefonata di Ares Tavolazzi e del pianista Claudio Cesselli. Io, anche se
spaventatissimo, accettai un'esperienza che non mi sarei mai immaginato così
interessante ed istruttiva. Dapprima mi preoccupò la scaletta dei brani,
scoprendo che era un mistero. Solitamente quest'uomo non annuncia mai il titolo
degli standard che va a suonare e nemmeno si preoccupa di rendere nota, ai musicisti, la tonalità dei pezzi (beh, per me
un problema in meno!). Mi mise subito a mio agio (...era una serata buona).
Poi, subito, prima lezione: "If you know play, if you don't know don't play"
(tradotto: se (la) sai suona. Se non (la)
sai non suonare). Fortunatamente quella sera "I knew" (la sapevo). Ma prima di andare
via, seconda lezione: "Thank you for your music. Good cymbals, good snare, too
much rock bass drum" (tradotto:
Grazie per la tua musica. Il piatto era buono, il rullante pure, la cassa
troppo rock). La lezione fu chiarissima.
Con Phil Woods suonai una notte, a Ferrara durante
un party a casa di amici. Dopo cena parte una jam session che si protrasse fino
alle quattro del mattino. Il suo batterista di allora, Bill Goodwin, cominciò a
suonare una batteria "Pareschi", unico prototipo di una cosa più somigliante ad
un bilico che ad altro. Dopo aver swingato con la destra per circa tre brani
sempre in calando, causa i 5 o 6 whisky che trangugia con la sinistra, il
drummer statunitense cade addormentato su una poltrona. Il "cubalibre" che
invece stavo sorseggiando mi diede una tale scossa adrenalinica che cominciai a
suonare come non avevo mai fatto. Phil si girò, mi fece "O.K." ed io iniziai il
mio viaggio in paradiso, suonando col più grande contraltista del mondo. E lui
mi sorrideva compiaciuto. Ultimamente con lui ho fatto un concerto e due lavori
in studio, uno a nome del "Phil Woods Quartet" e l'altro per il grande
musicista ed amico Massimo Moriconi, insieme a Eric Marienthal,
Danilo Rea,
Franco Ambrosetti e Luciano Zadro. Pensandoci bene, ricordo con piacere anche
le "avventure" musicali che ho avuto con Ray Bryant,
Terence Blanchard
e con un
George Benson cantante, che mi stupì, senza chitarra, per la sua conoscenza di
tutti gli standard possibili, durante un dopo festival jazz a Comacchio.
E.D.: Chi secondo te è da riscoprire in Italia e nel resto del mondo?
E.B.:
Sicuramente tutto ciò che non sa di disonesto e di
falso.
E.D.: Tre grandi del passato da non dimenticare.
E.B.:
Louis Armstrong, Duke Ellington, Leonard
Bernstein. Forse intendevi batteristi? Allora... Big Sid Catlett, Kenny
Clarke, Philly Joe Jones, ma sono obbligato ad aggiungere Gene Krupa,
Papa Jo
Jones ed Art Blakey.
E.D.: Tre giovani e/o contemporanei da tenere d'orecchio e
d'occhio? (sono esclusi gli ovvi DeJohnette, Erskine, Foster, Hart).
E.B.: Io personalmente adoro Bill Stewart; non so se
Marvin "Smitty" Smith e Jeff "Tain" Watts si possano considerare giovani.
Sinceramente guarderei dalle parti di Messina. Pare, detto da fonti
attendibili, che lì ci sia un bambino di circa dieci anni che è una forza della
natura. Questo è proprio bello.
E.D.: Oxley, Humair, Bennink, Romano,
Christensen, Ceccarelli, ma anche i nostri
Gatto,
Manzi,
Prina, fino allo spagnolo Jorge Rossy (drummer del trio di
Brad Mehldau), sono una più che eccellente prova della validità della
scuola europea. Non pensi che ultimamente nella batteria, come in altri
strumenti, gli U.S.A. stiano producendo musicisti con un elevato standard
tecnico, incapaci però di inventarsi qualcosa di nuovo come accade ai loro
omologhi del vecchio continente ?
E.D.: Sai, io sono ben consapevole che i musicisti che
hai menzionato sono di elevata caratura e sono, inoltre, dei "creativi" dello
strumento. Io non appartengo, però, a questa categoria. Io sono un "purista".
In tutto. Più che ascoltare il jazz con metriche e ritmi funk o il funk
progressivo (Steve Coleman, per fare un nome), preferisco ascoltare James Brown
o gli Earth, Wind & Fire. Nel rock adoro John Bonham, Ian Paice
e Ginger
Baker. Purista anche in quello. Dal mio punto di vista il jazz è il cosiddetto
"mainstream". Talvolta mi domando persino se quello che faceva Coltrane si
potesse catalogare come jazz. Se già Parker e Gillespie fossero ancora dei
musicisti di jazz. La questione che pongo, almeno nei confronti di tale musica,
è che io non voglio forzare i limiti di ciò che di bello c'è già. Se incontri
la donna della tua vita, perchè cercare ancora? E con tale ottica, non essendo
un "frequentatore abituale" di tale musica, mi pongo nei confronti delle
occasioni che ho di suonarla. Occasioni che accetto soprattutto se mi vengono
proposte da amici, che mi conoscono e che quindi sanno il tipo di apporto che
posso dare alle situazioni che mi propongono. Tornando all'aspetto principale
della "querelle", ti dirò che niente mi dà più piacere di ascoltare l'Art
Taylor dei giorni migliori. Un batterismo che comunque "inventa", ma
all'interno del già esistente. Molti, magari anche tu, sostengono che Motian
è
più "avanti" di un Lewis Nash, che, si suppone, sia solo l'epigono di una certa
tradizione. Eppure, almeno per me, Nash swinga molto più del Motian che suona
al "Deer Inn" con Jarrett e Peacock. Non sarà innovativo, d'accordo; però non
suona "esattamente" come Philly Joe, Taylor, Louis Hayes o Mickey Roker. Nessuno
suona mai come un altro!
Invia un commento
©
2000 - 2003 Jazzitalia.net - Ernesto D'Angelo - Tutti i diritti riservati
© 2000 - 2024 Tutto il materiale pubblicato su Jazzitalia è di esclusiva proprietà dell'autore ed è coperto da Copyright internazionale, pertanto non è consentito alcun utilizzo che non sia preventivamente concordato con chi ne detiene i diritti.
|
COMMENTI | Inserito il 19/7/2003 alle 21.33.47 da "oppalo" Commento: Grande Ellade, è stato mio maestro per due giorni e sono rimasto affascinato dalla sua bravura! http://www.midzero.tk
| | Inserito il 9/7/2010 alle 16.29.58 da "nicoladrago" Commento: caro bandini, che conobbi 100 anni fa al Paradiso perduto a venezia, quando appena appena armeggiavo coii tamburi e il jazz. un grande. Anch'io preferisco Motian a nash perchè Motian ha un linguaggio personale e innovativo. | |
Questa pagina è stata visitata 27.624 volte
Data pubblicazione: 16/05/2003
|
|