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Jazz in My Blood...
Intervista a Cinzia Spata
di Gianmichele Taormina

Tenacia e umiltà, continuo raffronto con la propria arte e le proprie esperienze, facendo tesoro di tutto ciò che si è imparato nel corso degli anni. Comunicarlo sul palco, su disco, con gli allievi delle sue classi di canto.

È questo il lavoro di addizione, perentorio, infaticabile e per certi versi affascinante di Cinzia Spata, vocalist palermitana, romana d'adozione, da quasi trent'anni raffinata signora nel mondo del jazz internazionale, tornata in studio lo scorso anno con "93 – 03", importante testimonianza di una ritrovata verve artistica a dimostrazione dell'inarrestabile impegno di una vocalist determinata a portare a termine i propri personali progetti. A qualsiasi costo...

Ne abbiamo parlato, rivangando il passato e cercando una relazione col futuro, proprio con la diretta interessata...

G.T.: Iniziamo subito col parlare del tuo ultimo splendido lavoro intitolato "93 – 03" (Azzurra Music, 2004, con Donny McCaslin al soprano, Marc Copland al piano, Ron Mcclure al contrabbasso e Marcello Pellitteri alla batteria). Come mai sei giunta all'incisione dopo dieci anni di "congelamento" (o forse sarebbe meglio dire di maturazione?) del tuo repertorio e di altri pezzi da te composti?
C
.S.: Sentivo da un po'di tempo la necessità di registrare un cd, soprattutto per non far perdere traccia della musica che avevo cantato fino a quel momento. Il mio decennio di allontanamento dalla scena "live", e non dalla musica in generale, è dipeso dalla scelta di dedicare tale periodo alla crescita di mia figlia. Ho cantato meno in giro, rimanendo presente a Roma e presenziando, di tanto in tanto, a qualche festival che non richiedesse lunghi periodi d'assenza da casa (come Roccella Jonica o Parma Jazz). In tutto questo periodo di assenza dalle scene, mi sono dedicata alla didattica vocale, che è un altro degli aspetti della musica che mi interessa molto.

G.T.: Ci racconteresti com'è avvenuta la gestazione del disco?
C.S.:
Dopo aver sentito la necessità di rimettere i piedi sul palco, ho iniziato a cercare nuovi spunti musicali per il repertorio, ma prima volevo fissare alcuni "steps" della mia attività artistica su cd. Il mio intento era quello di mettere insieme una band che mi soddisfacesse, che fosse "dentro" la mia musica e che ne avesse la mia medesima concezione. I brani da incidere erano tanti, quindi dapprima ho fatto una selezione, poi, scelto l'organico, ho pensato agli arrangiamenti e, presi i contatti con i musicisti ho fissato lo studio.....

G.T.: Prima di entrare in sala di registrazione conoscevi Marc Copland e Ron McClure? Come hai preso contatti con i due?
C.S.:
Conoscevo Ron McClure dai tempi in cui abitavo a Boston ed è sempre stato uno dei miei contrabbassisti preferiti (forse perchè suonava con i Quest, la band diretta da Dave Liebman e Richie Beirach, uno dei miei gruppi preferiti negli anni Ottanta). Di Marc conoscevo il lavoro e pensavo che potesse essere un'esperienza memorabile poter lavorare con lui, ma non lo conoscevo personalmente prima di registrare.

G.T.: Anche la presenza del sassofonista Donny McCaslin, spiazza di molto. Bravo e apprezzato in USA ma praticamente sconosciuto qui da noi... Come l'hai scovato?
C.S.: Donny era già noto negli States soprattutto tra Boston e New York e io avevo avuto modo di apprezzarlo durante le mie ricorrenti capatine negli Stati Uniti. Quando stai lì, ti accorgi dei talenti veri e sai che prima o poi emergeranno ed io, da brava "talent scout", non mi sono lasciata scappare l'occasione con Donny (come del resto feci quindici anni fa con Kurt Rosenwinkel e Stefano Di Battista, elemento del mio gruppo per quattro anni).

G.T.: Il lavoro ha un approccio sostanzialmente intimo, privato, quasi confessional...Mi riferisco a tue composizioni come North Carolina che apre magnificamente il cd e altre due ballad come Thanks G. e Friend, We're Through. Ce ne parli?
C.S.:
Thanks G. è uno tra i primi brani che ho scritto e risale al 1990 circa (e si sente...), mentre sia North Carolina che Friend, We're Through sono brani più recenti, nati in diversi momenti e suonati più volte con il gruppo italiano. Nel cd c'è anche Anek, un'altra mia composizione, la più recente, dedicata all'amato Kenny Wheeler, di cui negli anni ho cantato molti brani tra cui, oltre ai due registrati, anche 3/4 In The Afternoon e Three For D'reen.

G.T.: Hai un metodo compositivo ben definito o spesso è l'ispirazione ad avere la meglio?
C.S.:
Tutto parte sempre dall'ispirazione. Ci sono stati un paio d'anni in cui ho scritto tantissimo, con risultati credo soddisfacenti, mentre alcuni altri periodi sono stati meno felici. Inizio comunque sempre dalla parte musicale e più precisamente da quella armonica o dalle linee di basso. Altre volte capita che si affacci per prima la melodia ma il testo comunque viene scritto sempre per ultimo.

G.T.: Le restanti altre tracce ben si coniugano con canzoni scritte non di tuo pugno come A Young Girl ed Everybody's Songs But My Own firmate dal grande Kenny Wheeler. È stato difficile separarsi "mentalmente" dalle interpretazioni che ne diede Norma Winstone?
C.S.:
No, per niente, in quanto ho avuto la partitura di Everybody's Song But My Own proprio da Norma prima ancora che lei lo registrasse, quindi ho sentito la sua versione solo dopo averla cantata per un lungo periodo mentre non credo (almeno io non l'ho mai sentito) che la Winstone abbia mai registrato A Young Girl. Infatti questo è uno dei brani che Kenny Wheeler portò al festival di Roccella Jonica per un progetto speciale che andò in scena in quel festival con un memorabile assolo di Danilo Rea.

G.T.: Hai lavorato con Norma come assistente in diversi seminari. Com'è la Winstone come vocalist e soprattutto come insegnante? Cosa hai imparato da quell'esperienza?
C.S.:
Norma è una persona deliziosa prima di tutto. L'ho conosciuta nel 1983 insieme a John Taylor e da allora lei mi ha sempre sostenuta con stima e amicizia. Poi l'ho ritrovata ai seminari in cui avevo il ruolo di assistente, di traduttrice e a volte anche di accompagnatrice degli allievi al piano. Quello che la Winstone cerca di trasmettere ai seminari è il giusto approccio musicale e vocale al jazz più che "insegnare" qualcosa di tecnico o teorico nel senso più preciso del termine. Com'è come cantante......lo sanno tutti!

G.T.: Hai altri punti di rifermento artistici riguardo la tua carriera?
C.S.:
Da giovane ho distrutto i dischi di Sarah Vaughan per l'uso continuo che ne facevo. Non credo di avere più avuto da allora, degli idoli o altri artisti di riferimento tra i cantanti ma solo tra gli strumentisti. Se sai "come" cantare, hai bisogno di ascoltare chi è più "avanti" e chi ha qualcosa in più da insegnarti e, nel jazz, questo lo puoi fare studiando sugli strumentisti, quasi sempre fiatisti. Ho tirato giù molti soli, ho ascoltato e amato molti musicisti ma quelli che mi hanno più influenzata credo siano stati Dexter Gordon e Lee Morgan seguiti (in ordine di tempo) da Jan Garbarek e dall'ormai abusato Kenny Wheeler.

G.T.: Che musica ascolti in prevalenza? Artisti e dischi preferiti?
C.S.:
In prevalenza jazz di ogni era e stile; passo nello stesso giorno da Alex Sipiagin a Bill Evans, da Paul Motian a Shirley Horne. Poi subisco la musica che ascoltano gli altri componenti della mia famiglia e passo da Sting ad Eminem (e poteva andarmi anche molto peggio)! Uno dei miei dischi preferiti in assoluto è "Gnu High" (Kenny Wheeler: ECM, 1976), la cantante che stimo di più al momento è Luciana Souza.

G.T.: Ci parli dei tuoi esordi col jazz e dei vecchi tempi a Palermo?
C.S.:
Semplice: primo contatto e primo concerto di jazz da ascoltatrice Lee Konitz quartet, Brass Group 1978, Palermo. Successivamente giovani amici (Salvatore Bonafede, Mimmo Cafiero, Giuseppe Costa, Sandro Palacino e Franco Lotà) mi chiedono se voglio cantare nella band che stanno mettendo su. Esordio dal vivo dopo qualche mese e prima recensione dal titolo "Entrano in campo le jazziste"!... Lo ricordo ancora! Subito dopo è arrivato il lavoro con Enzo Randisi, la registrazione del primo disco, la tournee in Spagna e da lì il via per Berklee (Boston). L'altro periodo palermitano è quello che intercorre tra il ritorno dagli States ed il trasferimento a Roma, cioè dal 1983 al 1986. In quel periodo la Sicilia mi ha dato tutto quello che poteva darmi: concerti, spazi per ricerche artistiche, esperienza in big band, registrazione del secondo disco, notorietà, supporto ma soprattutto contatti con i musicisti; ho ricordi molto belli!

G.T.: Se non sbaglio sei stata una delle prime in Italia a varcare l'Oceano per trasferisti a Berklee. Come ricordi quei tempi?
C.S.:
Per l'esattezza sono stata la prima donna italiana a frequentare la mitica Berklee! Che bel periodo!!! Si doveva studiare moltissimo ma ero lì per quello, non chiedevo altro! Erano i tempi in cui Stoloff, ancora semi studente, cercava di diffondere il concetto di vocalità strumentale; il periodo in cui il pianista emergente a scuola era Dave Kikoski, mentre Makoto Ozone era già lo studente più affermato. E poi c'era la vita fuori da Berklee, i contatti con Jerry Bergonzi, l'amicizia con Ran Blake, i concerti al Performance Center, il Ryles! Un'esperienza che consiglio a tutti e che rifarei subito, anche se l'America ha perso qualche punto! Inoltre credo che oggi si possa benissimo studiare in Italia anche se "l'esperienza americana" ti forma professionalmente.

G.T.: Com'era è com'è attualmente il tuo sodalizio artistico e non solo con tua sorella Loredana, anche lei meravigliosa vocalist e attenta insegnante?
C.S.:
Il rapporto con Loredana è particolare dato che abitiamo in due città diverse ormai da più di 20 anni ma il filo musicale ci unisce sempre. Ci confrontiamo comunque molto più sul campo della didattica, scambiandoci opinioni, intuizioni, problematiche e spesso cercando di risolverle insieme.

G.T.: Da oltre vent'anni insegni tecnica vocale, armonia, improvvisazione e ear training e hai scritto in proposito diversi importanti metodi. Qual'è il tuo approccio con gli allievi e la tua metodica d'insegnamento?
C.S.:
Sì, ho iniziato ad insegnare nel 1983 proprio al Brass Group di Palermo e, anche se avevo parecchie conoscenze musicali, non avevo ancora adottato un particolare metodo d'insegnamento. Oggi il mio approccio con l'allievo è molto personale, seguo una strada tutta mia per arrivare agli obbiettivi prefissi, non mi rifaccio a nessun tipo di scuola di canto (intesa come italiana, tedesca etc.) ma ho elaborato un metodo che racchiude tutte le mie intuizioni e scoperte di un ventennio. Insegno armonia ed ear training ai cantanti per il solo scopo di poter affrontare l'argomento improvvisazione e anche in questo campo ho dovuto inventare una serie di esercizi per portare l'allievo all'uso della giusta articolazione, al fraseggio e all'ampliamento del range di scelta di note...un lavorone!

G.T.: Che consigli suggerisci solitamente ai tuoi allievi nell'arte di rapportarsi col complesso mondo del jazz?
C.S.:
Adeguata preparazione, originalità, voglia di rischiare e non pensare al jazz come lavoro, cosa purtroppo molto comune in questi anni. La cosa che riscontro maggiormente in molti giovani che dicono di volere studiare jazz infatti, è la mancanza di "vera passione". Questa nostra musica richiede molti sacrifici che non si possono fare se non motivati fortemente. Il consiglio che do a tutti è l'importanza di conoscere quanto più materiale possibile, quanta più musica sia stata registrata, quante più versioni dei brani da interpretare... e poi spingo a cercare la propria strada, l'originalità. Ma soprattutto mi batto per l'ascolto e la frequentazione dei concerti.

G.T.: La didattica toglie tempo prezioso ai tuoi studi personali e alla professione di vocalist?
C.S.:
La didattica toglie tempo a tutto, ti assorbe completamente, ti prosciuga e a volte ti distrugge. Ma io continuo a farlo e anche con piacere. Che vorrà dire?

G.T.: Che sei una testarda idealista come poche....! (ridiamo). restando in argomento, pensi che il jazz vocale in Italia sia valutato come realmente merita?
C.S.:
Sai, anni fa quando ero molto presente, ti avrei risposto di sì. Non ho mai avuto problemi di considerazione (e credo neanche Tiziana Ghiglioni o Maria Pia De Vito) da parte di organizzatori e stampa. Dopo questo fatidico periodo di assenza, è bastato riaffacciarmi che mi è sembrato di essere piombata in un altro mondo, pieno di diffidenza da parte degli organizzatori e di chiusure da parte della stampa. In più ci si è messa l'ondata del Nu Jazz che non ha di certo aiutato, anzi ha creato una gran confusione, per cui meglio non rischiare con un concerto di una cantante, come dicono alcuni promoters. E la difficoltà adesso si riscontra anche dal punto di vista discografico, una fatica!

G.T.: Il carnet delle tue collaborazioni è pieno zeppo di nomi importanti: Tony Scott e Lester Bowie, Kurt Rosenwinkel e Kenny Wheeler e poi ancora Rea, Di Battista, Morgera, Fassi...Quale incontro ti ha lasciato veramente il segno e chi ancora manca all'appello?
C.S.:
Tutte grandi esperienze ma nessun segno in particolare. Non hai nominato però Marc Copland con cui ho appena fatto dei concerti e con cui c'è un feeling musicale spaventoso. Che poeta! All'appello manca un sacco di gente, vorrei poter suonare con tutti, ma se ti riferisci ad un mito no, non ne ho nessuno.

G.T.: Cosa riserva il futuro per Cinzia Spata?
C.S.:
Ho ricevuto una bella proposta per un nuovo cd ma sto valutando se accettare o no. La mia voglia più grande in questo momento è quella di riprendere a cantare di nuovo in giro e di stare a contatto con il pubblico; inoltre sento la necessità di conoscere altri musicisti, scambiare idee, confrontarmi, crescere e portare la mia concezione di vocalità possibilmente anche in giro per l'Europa, anche se le istituzioni Italiane non aiutano l'esportazione musicale. Chiedo troppo?







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Data pubblicazione: 01/04/2006

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