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Intervista a Abraham BURTON
Abraham Burton Quartet
06 novembre 2002 - Teatro Metropolitan (Palermo)
di Antonio Terzo

"Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. Non succede spesso, però".

Questo quanto a proposito di libri Salinger mette in bocca al suo "Giovane Holden". Ma senza dubbio lo stesso potrebbe dirsi anche per la musica.
Probabilmente, infatti, è stata questa la sensazione provata alla fine del concerto dell'Abraham Burton Quartet al Teatro Metropolitan di Palermo, giovani musicisti che, in quanto tali, suonano semplicemente per il piacere ancora ingenuo e spontaneo di farlo.

E dire che giovani, questi musicisti, lo sono solo anagraficamente, perché professionalmente hanno già calcato i più importanti jazz clubs newyorkesi, Sweet Basil, Visiones, Village Vanguard, lo storico Birdland, come, in particolare, lo stesso leader del gruppo, il tenorsassofonista Abraham Burton, oppure portano sulle spalle una autorevole eredità, come il batterista Nasheet Waits, figlio del celebre Freddie, o ancora si sono imposti all'attenzione della critica per le proprie personali doti musicali, come il pianista Orrin Evans, oppure vengono da una esperienza lontana non solo nello spazio, come il bassista giapponese Youske Inoue, o infine hanno già suonato con artisti del calibro di Chick Corea addirittura con la London Philarmonic Orchestra, come il trombonista Steve Davis, ospite che integra il gruppo data l'impossibilità di Charles Tolliver, causa problemi personali.

Abraham ed i suoi compagni a suonare si divertono, si vede dal modo in cui stanno sul palco, non solo durante le prove, quando Burton scambia con Davis un paio di svisi, dirigendo il gruppo addirittura dalla platea, dove si trova per controllare il suono in sala; ma anche durante lo spettacolo: si direbbe che giochino con la musica mettendo la loro arte al servizio del divertimento, proprio e, ovviamente, del pubblico.

Burton fa subito le presentazioni, quindi un suo "stacco" dà inizio alla musica con Salerno at Midnight, un brano di Steve Davis, la cui introduzione è affidata alla sessione ritmica piano-basso-batteria, cui poi si aggiungono all'unisono trombone e sax. Limpido assolo del trombone, molto sentito, un timbro caldo che ben si abbina al sax di Abraham. Di quest'ultimo colpisce la voce robusta, l'atmosfera da club che riesce a creare con l'espressività solare ed agile dello strumento, la sua dotazione di riffs ... L'assolo del piano di Evans è più incentrato su accordi rivolti, finché la mano destra, dopo aver ripetutamente martellato su una nota, si stacca a intessere una fitta trama di frasi diverse e legate tra loro, alternate ad altre molto liriche. Sottostà a tutto ciò un basso forse lasciato un po' in ombra, ma comunque intento a carpire gli spiragli che inevitabilmente lascia aperti il duetto fra trombone e batteria.

E senza soluzione di continuità prende vita il secondo brano, Come, questa volta una composizione di Orrin Evans, per un'atmosfera surreale creata dagli accordi dissonanti del piano e dal top-ride prolungato della batteria di Waits. Sax e trombone suonano la stessa nota, ma il secondo, in sovrapposizione leggermente ritardata, prolunga il suono del primo per un particolare effetto delay. Molto pathos anche nel solo di piano, un jazz fusion di stampo chickcoreano, che si produce in trilli ed altri tecnicismi accademici, e scale per un'improvvisazione modale realizzata sul disegno armonico di un paio di accordi.

Molto fantasioso il solo di Abraham, ora a soffermarsi su una breve frase, ora a scaricare una scala che coinvolge tutta l'estensione del suo strumento, ora ad accentuare un paio di note, poi una nota soltanto… Lucida improvvisazione che tocca i sovracuti con precisione ed intonazione micidiali. Poi anche il piano e la batteria prendono parte alla festa di suoni per risvegliare Abraham dalla trance alla realtà. Bello e pulito anche l'assolo del basso, accompagnato da isolati chords di piano e dall'eco del rimshot di Waits.

Ogni tanto Burton testa il gradimento del pubblico chiedendo: "You had a good time?" Quindi vari brani di sua composizione, come Road Life, dove il primo solo è questa volta per il tocco free e disinvolto di Evans, le cui mani scorrono la tastiera e le note sembrano rincorrere le sue dita, mentre Abraham, tenendosi un po' in disparte sulla destra, lo segue accompagnandone le evoluzioni con lenti movimenti della testa. Particolare l'intesa tra Burton e Waits, insieme da sempre, che nel brano Blues Tune duettano in un pregevole dialogo improvvisativo.

Infine, per l'encore un semplice tema scritto da Burton, Punta Lullaby, con i brass ancora una volta ben affiatati, Abraham che interviene a riempire gli spazi che Davis lascia eseguendo il maintheme, Evans che mitraglia ancora note, tutto marcato da Waits che assieme a Inoue sostiene il ritmo di un finale un po' spagnoleggiante.

Ebbene, finito il concerto, resta da parte di tutti la voglia di parlare con quel ragazzone molto alla mano che è riuscito a divertire per circa un'ora e mezza di musica quasi ininterrotta.

ANTONIO TERZO: Hai cominciato studiando con un grande vecchio del jazz, Jackie McLean: quanto è importante la tradizione per un giovane jazzista? La consideri la base da sviluppare?
ABRAHAM BURTON: La tradizione è importante per tutto, per comprendere da dove viene la musica, su cosa si basa, come è cresciuta e si è sviluppata, me ne preoccupo, è molto importante. E' come una persona che sia cresciuta in casa, la famiglia sulla quale poggiano le fondamenta, è così, è quasi come le fondamenta, su cui si cresce… Per me la famiglia è la cosa più importante, si deve conoscere la propria cultura, la cultura è molto importante. La tradizione è cultura.

A.T.: Tu hai scelto a suo tempo McLean come insegnante: come scegliere oggi un buon insegnante?
A.B.: Jackie McLean è stato fonte di grande motivazione per me, personalmente. Perché nutrivo un grande rispetto per lui e come musicista resta ancora uno dei miei preferiti, perché aveva un suono talmente originale, una voce così identificabile...Lo ascolti e sai che è lui che sta dando queste cose meravigliose. Vedi, puoi apprendere ovunque tu sia, dipende da te: puoi interessarti di musica, o imparare questa musica, specialmente oggi, in quanto ci sono così tanti modi, così tanti posti, ma per me Jackie McLean è stato più che semplice innovazione. Ricordo quando all'inizio andai a scuola, lui restò assente da scuola per circa due settimane, ma questo ci dava tanta motivazione, perché sarebbe arrivato il giorno in cui lo avremmo visto, e io non riuscivo a dormire, ero spaventato...C'era molta eccitazione e si poteva trovarla dentro ciascuno, sai? Se sei motivato, imparerai certamente la sua musica...I grandi musicisti sono parecchi, Elvin Jones, Max Roach, Jackie McLean, Sonny Rollins...Ma non possono insegnarti davvero questa musica, in un certo senso possono solo motivarti in quel modo, credo. Possono insegnarti, mostrarti la tecnica e quant'altro, che sono molto importanti, ma [il resto] dipende da te, in quanto studente, mi spiego?

A.T.: Sul sito della ENJA Records, una tua affermazione riporta che Michael Carvin ti ha insegnato a suonare esprimendo te stesso, ascoltando più i tuoi sentimenti anziché teorie e scale. Poi hai incontrato Jackie McLean, che, come tu dici, ti ha portato ad una battuta d'arresto per poi farti ripartire. Ti ha fatto conoscere Charlie Parker, Lester Young, Coleman Hawkins, Sidney Bechet, Louis Armstrong, grandi jazzisti che, al contrario, suonavano usando la loro notevole tecnica. La domanda è: come concili e combini queste due grandi ma differenti lezioni?
A.B.: Ma sono entrambe estremamente importanti, tutte e due sono essenziali per arrivare dove vuoi arrivare, sai...Perché tante volte si trova che molti musicisti cercano di ottenere qualcosa di personale. Penso questo sia l'obiettivo finale, si fa molto studio, s'impara la musica e si cerca di apprendere quanto più possibile sulla musica. Ma in ultima istanza si cerca di esprimere davvero se stessi...Parlo dei musicisti in genere, non giovani musicisti jazz o classici, ma solo musicisti. Penso che ciascuno provi ad ottenere quel sentimento intimo, quell'espressione intima che si vorrebbe trasmettere, la voce per cui poi la gente ti apprezza tantissimo, mi spiego? Questo è ciò che penso...Allora sono entrambi essenziali, perché l'insegnamento può fornire la tecnica per rileggere gli stili classici, la tradizione. Si può anche avere una grande immaginazione per suonare, ma se non si possiede la tecnica e la conoscenza per tirarla fuori, non si riuscirà mai...Non ci si può esprimere.

A.T.: Hai suonato con parecchi grandi jazzisti: i tuoi insegnanti Michael Carvin, Jackie McLean, Art Taylor ed anche altri, Wynton Marsalis, Milt Jackson, Roy Hargrove, Louis Hayes, Roy Haynes, James Carter, Kenny Barron, John Hicks, Arthur Blythe, Jimmy Smith, per citarne solo alcuni. Su chi vorresti raccontare qualcosa?
A.B.: Probabilmente Arthur Taylor ha avuto l'impatto maggiore, intendo musicalmente...Già, perché ha costituito la mia prima esperienza. E' come il primo amore: la prima volta non la dimentichi, perché senti sopraggiungere così tante sensazioni che non hai mai provato prima, e non capisci...Ma ti trovi ad un punto importante della tua vita, in cui sei davvero coinvolto...

A.T.: Ma probabilmente hai compreso soltanto dopo molte delle cose che Taylor diceva …
A.B.: Oh, davvero! Lo penso anch'io, perché ci sono così tante cose che era solito dire, cose che avevano a che fare con l'industria musicale. Cercava sempre di prepararmi per gli anni a venire. Quando suonavo con lui non ero realmente pronto, maturo…ma lui non mi ha mai fatto sentire solo un ragazzo, mi spingeva sempre, "Continua così! Sì così! Bene, bene!", mi incoraggiava, vedi… E quando sei giovane hai sempre bisogno di qualcuno che ti incoraggi, perché è un momento molto importante della tua vita…

A.T.: Sull'opuscolo della rassegna Jazz al Metropolitan ci si riferisce a te come un "giovane e brillante altosassofonista": ma c'è anche un aspetto interessante circa il tuo debutto al sax tenore con il batterista Louis Hayes; racconteresti direttamente tu la storia?
A.B.: Non si è trattato di un cambiamento, sai, semplicemente d'aprire più porte, per me stesso, perché, voglio dire, è che sentire una voce differente, avere un'esperienza diversa, allarga, amplia di più… Puoi suonare solo uno strumento e questo va bene, ma ne suoni un altro acquisisci una prospettiva più vasta!

A.T.: E adesso che hai sperimentato entrambi questi strumenti, che ti sei misurato con essi, quale dei due preferisci?
A.B.: Non si tratta affatto di preferenza, bensì d'avere più linee di varietà… Quando suono il sax alto è totalmente differente il modo in cui penso, il modo in cui sento, confrontato a quando suono il tenore: due punti di vista differenti.

A.T.: Ma quale dei due ti fa esprimere meglio?
A.B.: Non penso di esprimermi meglio con l'uno o con l'altro, ritengo che ciascuno di essi esprima un differente lato di me.

A.T.: Conosci qualche jazzista italiano? Cosa pensi della scena jazzistica italiana?
A.B.: Non so molto della scena jazz in Italia, in termini di altri musicisti. Non ne ho incontrati molti perché non sono stato in Italia molte volte, credo forse tre o quattro volte e, onestamente, è un bel posto, ragazzi, grazie alla gente… Sento che la gente faccia realmente attenzione, segua davvero, dia davvero un'opportunità… Perché talvolta, quando parlo con le persone dopo [lo spettacolo], le cose che mi dicono sono molto interessanti, [attestando] come essi abbiano davvero ascoltato e compreso la musica.

A.T.: Così giovane ed hai già registrato tre album, di buon livello stando alle critiche, il primo addirittura a 23 anni! Il tuo ultimo lavoro si chiama Cause&Effect: adesso dove sei diretto, che obiettivi ti prefiggi di raggiungere nella tua musica?
A.B.: Desidero essere più musicale, voglio suonare musica vera… Penso che quando ero più giovane fossi più personale, intendo non personale ma più… come per mostrare cosa sapessi fare, sai? Ma ritengo di essere un po' più cresciuto adesso… e va bene, perché comprendo che c'è un bel po' più di musica di quanta si possa mostrare di saperne fare. Ma ci sono altri modi per mostralo, altre maniere di esprimere la musica…

A.T.: Gli esperti parlano del tuo stile come di "neo-bop": senti che tale definizione sia giusta per la tua musica?
A.B.: Personalmente non etichetto nulla, non credo… Perché quando si etichetta si "incasella", mi spiego? E stop…

A.T.: E' limitante…
A.B.: Già… Mi piace la musica, vedi? Non voglio essere un musicista di jazz, desidero essere un musicista. Adoro la musica, ascolto tutti i tipi di musica… La musica di stasera, parecchie delle cose che suoneremo non hanno nulla a che fare con questo. [Mi piace] semplicemente creare della musica che possa divertire la gente, che possa divertire noi, capisci? Solo qualcosa che possa collegarci tutti, muoverci… Musica!

Antonio Terzo

 


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Data pubblicazione: 26/11/2002





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