Il Jazz non è che una
delle molte lingue e culture musicali che si possono incontrare nel XX secolo; ma sicuramente un linguaggio
molto particolare, costellato da diverse influenze, prima fra tutte la cultura africana, specie dal punto di vista ritmico e improvvisativo.
Durante il secondo decennio del XX secolo
l'America stava
elaborando in silenzio, quasi di nascosto, questo linguaggio nettamente
autonomo, chiamato appunto jazz.
In Europa l'evoluzione Musicale seguiva, nella musica colta, uno
schema vecchio di secoli ed era dettato più che altro dalle
intuizioni dei singoli individui: ciò che l'età romantica amava chiamare
ispirazione del "Genio Creativo". Il
jazz invece si presentava non come il prodotto di un manipolo di innovatori, ma come
una musica quasi folk, relativamente poco raffinata – più fenomeno sociologico
che arte – appena formatasi per una mezza dozzina di fonti in un idioma ancora
in gran parte anonimo, e tuttavia distinto.
Questo idioma derivava da una multicolore varietà di
tradizioni, giunte nel nuovo mondo in parte dall'Africa, in parte dall'Europa.
Molti scritti sul jazz abbondano di schematismi del tipo:
«il ritmo proviene dall'Africa, L'armonia dall'Europa»; è vero, ma fino a un certo punto.
Non è propriamente così, diciamo, anche se per
convenienza e per non dilungarci oltre lasciamo intatte queste schematiche
affermazioni.
Nelle culture africane il significato delle parole è
collegato ai suoni musicali. Una musica strumentale indipendente dalle funzioni
verbali, nel senso della musica "assoluta" europea, vi è pressoché ignota. In sostanza la lingua funziona solo in
simbiosi con il ritmo. La
straordinaria ricchezza sonora e timbrica di queste lingue ha una sua
intrinseca musicalità, che ritroviamo seppur in forma attenuata nei testi scat e bop (scat = fraseggiare con la voce come uno strumento a
fiato usando delle sillabe; bop = il linguaggio innovatore del
jazz dal 1940 in poi) del jazz
americano. E' noto anche che il percussionismo
africano era in origine una forma di comunicazione non verbale, e un po'
meno noto era che a tutte le figure
ritmiche del tamburo (in Africa considerate non semplici ritmi ma "motivi")
corrispondevano sillabe cosiddette "senza senso". Nel jazz tutto ciò sopravvive
in diverse manifestazioni: ad es. nel blues, l'imitazione di parole da parte di
strumenti in risposta al canto; o la tecnica "parlante" di solisti come
Joe "Tricky Sam" Nanton
(New York, 1 feb 1904 -
San Francisco, 20 lug 1946)
il grande trombonista di
Duke Ellington.
Quindi sotto
certi basilari aspetti socio-musicali,
il jazz è figlio trapiantato di tradizioni africane, ma cosa più importante è
che queste tradizioni sopravvivono in una stupefacente quantità di dettagli di ciascun parametro musicale,
inclusa, per certi versi, perfino l'armonia, che in genere viene ascritta al
ramo europeo degli antenati del jazz.
Gli elementi che contraddistinguono il jazz da ogni altra
musica occidentale sono il ritmo (appunto) e l'inflessione.
Esaminandone la natura del ritmo, scopriamo che a farne un
fenomeno unico concorrono due elementi: una caratteristica che i jazzisti
chiamano swing e la costante "democratizzazione" dei valori ritmici. «Per "democratizzazione" dei
valori ritmici, intendo semplicemente che nel jazz i cosiddetti tempi
deboli (o parti deboli della battuta) non vengono eseguiti attenuati come nella
musica eurocolta».
"Swing", nell'accezione
comune, significa battito regolare «come di un pendolo».
Su un piano più tecnico è il
piazzamento esatto di una nota
al tempo giusto. Però, se questa fosse la definizione completa, della maggior
parte della musica eurocolta si potrebbe dire che ha swing.
Analizzando lo swing del jazz troviamo due caratteristiche
non necessariamente presenti nella musica eurocolta:
- le note sono suonate o
cantate con un particolare tipo di accentazione e inflessione;
- le singole note sono
concatenate in una continua spinta in avanti.
In altre parole, lo swing è una forza che mantiene nella
musica l'equilibrio perfetto tra relazioni verticali e orizzontali.
Le spiegazioni verbali o gli esempi su pentagramma non
sostituiscono di certo l'ascolto diretto. Se ciò vale per la musica eurocolta, tanto più vale per il jazz: musica fondamentalmente improvvisata, che
in certa misura sfida la trascrizione, e in cui il ricorso alla partitura è impossibile (dato
che partiture in genere non ve ne sono - o, se una partitura esiste, in buona
misura risulta irrilevante). Nonostante i limiti della notazione musicale, una pagina di
Beethoven o Schoenberg è un documento
definitivo, un tracciato da cui possono derivare varie letture lievemente
diverse.
Al contrario, l'incisione di un brano jazz improvvisato (improvvisazione = composizione estemporanea) è una cosa di un attimo: in molti casi è
l'unica versione accessibile, e perciò "definitiva", di un qualcosa mai pensato
come definitivo. Così, ad es., lo storico che scrive del jazz è costretto a
giudicare l'unica cosa che ha in mano: il documento sonoro.
Mentre ci interessa anzitutto ad
es. l'Eroica
e solo secondariamente il modo in cui
qualcuno la esegue, nel jazz il rapporto si rovescia.
Ci interessa ben poco
West End Blues
come tema o composizione;
prima di tutto conta il modo in cui Armstrong lo interpreta. Oltretutto siamo
obbligati a giudicare sulla scorta di una singola versione, incisa per caso nel
1928, e non ci resta altro che immaginare le altre centinaia che Armstrong ne diede, nessuna esattamente
uguale, alcune inferiori al disco, altre forse anche più ispirate.
Ritorniamo di nuovo all'analisi
dello Swing. Nella prassi esecutiva accademica, di solito vi è una gerarchia dei
parametri sonori, secondo cui l'altezza delle note è più importante del ritmo.
L'esecutore eurocolto spesso può o deve suonare una data serie di note badando
solo alla precisione verticale, senza pensare troppo al flusso propulsivo. Spesso
basta suonare le note a tempo (l'aspetto verticale) senza preoccuparsi delle
esigenze orizzontali del passo. Un bravo interprete le connetterà naturalmente in
modo da formare una frase: è il requisito minimo di ogni musica. Ma il fraseggio
non è ancora lo swing. Anche un minimo di ascolto comparato può confermare che
nel fraseggio della musica eurocolta lo slancio ritmico è relegato in un ruolo
secondario.
Dunque, tra jazz e musica eurocolta
l'articolazione ritmica è almeno di
grado diverso, e spesso di tipo diverso. Viceversa per il jazzista l'altezza è impensabile
senza un impulso ritmico altrettanto forte. Il ritmo è parte dell'espressione
musicale quanto l'altezza e il timbro, se non di più.
Questa dimensione aggiuntiva dell'impulso
ritmico è ciò che chiamiamo "swing".
Ritornando alla "Democratizzazione" dei valori
ritmici: il fatto cioè di non attenuare i tempi deboli; nel jazz sono
addirittura accentuati perfino più
dei tempi forti. Il musicista jazz lo fa non solo per mantenere l'uguaglianza
dinamica tra tempi "deboli" e "forti", ma anche per conservare la sonorità
piena delle note, anche quelle che dovessero cadere sui tempi deboli (l'unica
eccezione è la cosiddetta ghost note, nota
fantasma, che è più sottintesa che suonata).
In realtà, come già detto, l'inflessione jazz conduce spesso all'estremo
opposto: le note in apparenza deboli sono accentate, e poi ulteriormente
marcate per allungamento.
Un'altra manifestazione dello
stesso principio è il cosiddetto back beat, "tempo invertito", scandito dalla batteria sul secondo e quarto tempo
della battuta, e diffuso soprattutto nel jazz moderno e nel Rock ‘n' roll.
Analogamente, qualunque musicista jazz, contando uno-due-tre-quattro schiocca
le dita sul due e sul quattro, accettando così questi tempi di solito deboli,
piuttosto che l'uno e il tre.
Riferimenti bibliografici:
Gunther Schuller,
Il jazz: il periodo classico. Le origini EdT, Torino 1996.
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Data pubblicazione: 12/05/2002
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