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Della saggezza al pianoforte - Intervista con Cedar Walton

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C'è un senso di aureo appagamento attorno alla persona di Cedar Walton, mentre parla della propria musica. È come se tutte le tensioni e le spinte creative che possono aver caratterizzato la vita e la carriera di uno dei più grandi boppers della tastiera si siano raccolte in una visione serena e luminosa della propria opera. Il rapporto che Walton, oggi, intrattiene con la musica esprime infatti la più totale soddisfazione, quella del musicista che è prima di tutto un uomo che può permettersi di esprimersi liberamente, senza più doversi imporre.

Come ho potuto osservare nelle serate che lo hanno visto protagonista sulla scena del jazz club bolognese Chet Baker, alla fine dell'ottobre 2001, in trio con Reggie Johnson (contrabbasso) e Alvin Queen (batteria), l'esecuzione dal vivo non è più, per Walton, il teatro di una sofferta ricerca creativa, ma il risultato del suo superamento.

«Sento che non è più il momento per darmi degli obiettivi o, meglio, sembrerebbe altrimenti che mi sia arreso alla musica, sento di potermi permettere di farne a meno. Nella mia carriera ho avuto modo di suonare coi maggiori rappresentanti del modern jazz. Sono riuscito a trasformare ogni decennio della mia carriera, dai tardi anni Cinquanta in poi, in una serie di obiettivi raggiunti, progetti realizzati, desideri musicali soddisfatti. Posso oggi considerami appagato in quanto a incontri umani e musicali: l'essere stato a fianco di Kenny Dorham, Art Farmer, J.J. Johnson, John Coltrane, Art Blakey e poi numerosi altri ha dato i suoi frutti sia nell'immediato sia nel lungo periodo. Nel primo caso si trattava della soddisfazione di trovarmi al fianco di figure il cui assoluto valore mi ha permesso di far progredire la mia musica, anche quando ero io a essere al servizio di formazioni altrui. A tal proposito ricordo soprattutto la mia grandiosa esperienza con Blakey. Avevo appena ventotto anni quando mi unii a lui. Nel giro di alcuni anni non facemmo altro che suonare e viaggiare: ci esibivamo quasi tutte le settimane. Non conoscevamo il significato delle parole ‘tempo libero'. Assieme abbiamo fatto numerosi dischi [ricordiamo, tra gli altri,
Caravan (Riverside), Ugetsu (Riverside), Buhaina's Delight (Blue Note) e Free for All (Blue Note); N.d.R.], praticamente uno quasi ogni volta che avevamo sei o sette brani pronti per essere affidati al nastro. Fu un periodo straordinario; non avrebbe potuto non esserlo dato che Blakey era egli stesso un leader fuori dell'ordinario, sempre lì a incoraggiarmi e a spronarmi a comporre e arrangiare. Fu un gran bel modo di prendere confidenza con le mie capacità, mettendole alla prova sotto la guida di un tale musicista. Il periodo che passai nei Jazz Messengers è di gran lunga la migliore esperienza che mi sia capitata: non potrei pensare a una situazione migliore per un giovane jazzista».

«Ma con il passare degli anni e le collaborazioni, si è manifestato un secondo effetto dovuto alle mie esperienze. Mi riferisco al sorgere in me di una visione della musica jazz dalle rinnovate prospettive, rispetto ai primi decenni della mia carriera. Oggi, grazie al mio passato, posso permettermi di dedicarmi solo ed esclusivamente all'affinamento della mia musica. Posso estraniarmi da tutta una serie di cose che assillano un musicista agli inizi o nel pieno della sua attività: la necessità di trovare collaborazioni ‘importanti'; il desiderio di misurarsi in diversi contesti strumentali alla ricerca della propria formazione ideale; la ricerca di uno stile in cui riconoscersi oppure il tentativo di allontanarsi dal proprio stile consolidato, per rinnovarsi. Ecco, ora queste cose non mi preoccupano più perché sento di aver raggiunto l'ultimo periodo della mia carriera, che sto vivendo col massimo piacere. Se non coltivo più il sogno di suonare con questo o quel musicista è perché sono profondamente soddisfatto delle persone con le quali ho già suonato. Così, ora, sento di dovere dedicare tutta la mia attenzione all'esecuzione della mia musica e, naturalmente, far sì che essa divenga poi un momento di piacere e gratificazione sia per chi l'ascolta che per i giovani musicisti che la suonano al mio fianco».

Blakey non è l'unico batterista di spicco tra le grandi personalità del jazz moderno con le quali Walton ha dato vita a sodalizi degni di una menzione di rilievo nella storia del bop. Passato dalla corte di re Art alla guida di propri gruppi, Walton si è associato a Billy Higgins, in quel trio (completato da David Williams al contrabbasso) le cui prove sono l'esempio più illuminante dell'arte musicale del pianista, come documentano abbondantemente le numerose realizzazioni discografiche, sia in studio che dal vivo (come nel caso dei tre volumi di The Trio, registrati live proprio a Bologna nel 1985 e pubblicati dalla Red Records).

«Billy Higgins è sempre stato un batterista perfetto per i pianisti, semplicemente perché li ascoltava attentamente mentre suonava con loro. Nel mio caso, quando suonavo delicatamente lui faceva altrettanto, mentre se suonavo forte lui suonava… non proprio così forte! Questo significa che era sempre all'erta con le orecchie a ciò che io stavo suonando e che la sua comprensione del mio tocco era totale: suonava per me e non solo per se stesso, come è il caso di più di un batterista. Quando poi io lasciavo un qualche tipo di spazio scoperto nelle mie linee, lui interveniva prontamente per riempirlo, evitando che la mia musica perdesse spessore. Queste e innumerevoli altre cose lo rendevano quel gran batterista che sappiamo. Ci mancherà».

Per quanto riguarda il trio con Williams e Higgins nel suo insieme, questo è il particolare ricordo che ne serba Walton:

«dal basso di Williams mi veniva un supporto costante, associato a un senso di creatività che, sommato a quello di Higgins, permetteva alle esibizioni della formazione di essere davvero un lavoro di gruppo, non solamente l'opera di tre solisti che suonano nello stesso momento. Tra i membri di quel trio nessuno cercava di imporsi come prim'attore sugli altri: ognuno dava tutto se stesso per tutto il tempo, allo scopo dar vita all'unica cosa che merita il nome di trio: una unità formata da tre musicisti, non solo tre musicisti senza unità».

Tra i musicisti che Walton ha accolto come ospiti aggiunti del suo trio, uno riveste ancora una grande importanza nei progetti del pianista: Jackie McLean.

«La passata collaborazione tra il mio trio e Jackie McLean è documentata su etichetta Blue Note [
Nature Boy; N.d.R.]. I progetti attuali prevedono invece uno o due periodi all'anno in cui lavorare assieme: i prossimi appuntamenti sono per novembre allo Yoshi di Oakland e poi a dicembre, nel periodo natalizio, al Village Vanguard di New York. Al basso ci sarà sempre David Williams, mentre il posto che fu di Higgins è ora di Kenny Washington».

Come risulta immediato dalle parole di Walton, i suoi interessi riguardano ora soprattutto la propria musica e i musicisti che con lui la realizzano. Sono le nuove leve del jazz, ora, a trovare in Walton un musicista in grado di indirizzarne il gusto e le capacità.

«La maggior parte dei giovani musicisti coi quali ho suonato sono davvero speciali. Non ho mai avuto problemi con loro, anche per quanto riguarda l'esecuzione dei miei materiali: arrivano a suonare con me dimostrando di conoscerli già. Potete immaginarvi la mia sorpresa e soddisfazione quando ciò avviene! La loro conoscenza delle mie composizioni ricalca quella che solitamente i musicisti jazz hanno dei brani di autori dai nomi gloriosi, come Dizzy Gillespie. E io non credo di essere popolare come Dizzy… Qui a Bologna, per esempio, la mia musica è molto ben conosciuta dai giovani jazzisti del posto. Così, possiamo semplicemente incontrarci e iniziare a suonare assieme. Questo accade, per esempio, con Piero Odorici e con Roberto Rossi, che tra i giovani musicisti italiani sono quelli coi quali preferisco suonare. C'è poi Steve Grossman, che naturalmente è statunitense, ma che vive dalle parti di Bologna. Anche con lui l'intesa sulla mia musica è immediata, come mi pare che risulti chiaro dalla registrazione che ho fatto assieme a lui e il mio trio per la Red Records [
Love Is the Thing, N.d.R.]».

Walton, sin dagli esordi autore di brani di assoluto rilievo, come le incisioni dei Jazz Messengers di Blakey dimostrano (avete presente Ugetsu e Mosaic, che danno pure il titolo a due degli album della formazione di Blakey?), è stato in prevalenza associato all'immagine di un grande rivisitatore di standards. È questa, però, un'immagine infedele all'attuale stato delle cose, visto che ormai Walton non suona gli standards ma li ricompone nell'atto dell'improvvisazione, lasciando ai temi giusto il tempo di suggerire la presenza alle sue spalle di una solida tradizione musicale, prima di trasfigurarli, come nel caso di Over the Rainbow, eseguita anche in occasione delle serate bolognesi (e incisa in quintetto in Cedar's Blues, su etichetta Red Records).

«In questo momento uno dei brani coi quali mi piace confrontarmi più di frequente è
Off Minor di Thelonious Monk [c'è ne è una versione in duo con Williams in Off Minor e un'altra in trio in The Trio, Vol. 2, entrambi pubblicati da Red Records; N.d.R]; tra i brani che suono in diverse occasioni c'è anche Another Star di Stevie Wonder: opportunamente riarrangiato, o, se volete, ricomposto, dimostra che il repertorio jazzistico può attingere anche da stili a esso estranei. L'importante è, comunque, che quando riaffronto uno stesso brano il pubblico non abbia una sensazione di déjà vu, ma che si sorprenda ogni volta; a ogni nuova esecuzione, uno standard deve riaccendere l'interesse dell'ascoltatore. Questo è il mio obiettivo con gli standards».

L'obiettivo non può che dirsi raggiunto.

La figura di Walton andrebbe comunque ridisegnata prendendo in considerazione le sue composizioni originali. Il pianista di Dallas è ormai egli stesso una fonte di materiali che diventano repertorio 'di base' per altri musicisti. Ma Walton, come autore, aspetta ancora di essere completamente svelato al mondo degli ascoltatori di jazz, anche perché, fino a ora, nella stessa critica musicale è mancata la necessaria attenzione per questo aspetto della sua attività musicale.

«Per iniziare, nel mio modo di comporre non c'è un particolare aspetto che anticipa o sopravanza gli altri. Certamente, a volte l'impostazione armonica viene come primo passo della composizione: a volte capita di trovare una combinazione di accordi grandiosa! Ma anche in questo caso, in stretta prossimità del momento in cui il percorso armonico si va delineando, deve spuntare anche un tema, in modo da avere la melodia per quel preciso tessuto armonico. Non c'è un aspetto, tra l'invenzione tematica e quella armonica, che possa essere considerato autonomamente: ogni elemento, nell'atto del comporre, si lega immediatamente con il resto. Naturalmente, può anche succedere che sia un tema a presentarsi per primo alla mia mente. Anche in questo caso, ciò che importa è che l'aspetto del brano che sorge per primo non rimanga lì isolato. In ogni brano la melodia si sposa all'armonia, letteralmente, il che significa che l'una non può venire né senza l'altra né in un diverso momento».

«La maggior parte delle mie composizioni nascono direttamente al pianoforte. La composizione mentale, senza la tastiera davanti, presenta infatti fastidiosi contrattempi: non potrei annotare né lavorare con precisione su un'idea balenatami in testa durante una qualsiasi attività lontana dal pianoforte. Inoltre dovrei andarmene in giro canticchiandola per non scordarla… Il pianoforte mi permette invece di scavare all'interno delle idee, mentre al momento stesso ne verifico l'effettiva novità: voglio essere assolutamente certo che ciò che viene fuori dalla mia testa sia davvero originale. Ogni mia composizione deve essere nuova nel contenuto e non solo nel titolo. L'originalità viene dunque prima di tutto: un nuovo pezzo non dovrebbe mai  derivare, in un  modo o in un altro, da un altro più vecchio. Quando ho abbozzato qualcosa di nuovo, devo inoltre accertarmi che esso mi piaccia per davvero e che possa essere apprezzato anche di chi potrebbe ascoltarlo dopo di me. Quando si scrive musica, il desiderio di piacere agli altri, a coloro che ti ascolteranno, deve essere un elemento di guida: non si può scrivere musica altrimenti. Ritengo che sia poi assolutamente importante il fatto che il brano piaccia anche a chi potrebbe suonarlo assieme a me oppure oltre a me. Posso dirmi soddisfatto della qualità di uno dei miei pezzi quando esso solleva ammirazione tra i musicisti con cui lo suono: mi piace valutare la bontà di un brano leggendo sul volto di un musicista l'attrazione che su di lui esercita la mia composizione. Se ciò succede, allora posso anche pensare che altri musicisti apprezzeranno il mio brano anche se io non sarò lì a suonarlo con loro. Riassumendo, mi auguro che gli ascoltatori di jazz gradiscano le mie composizioni, mentre i musicisti di jazz adorino suonarle, perché ciò significherebbe il massimo apprezzamento di ciò che ho fatto».

I desideri di Walton sono ormai da tempo un'effettiva realtà della scena jazzistica internazionale. I suoi brani hanno incominciato a entrare nei programmi di altri musicisti. Non poteva che essere così, dal primo momento in cui essi diventarono una presenza costante nel repertorio di Blakey.

«Non nascondo la mia soddisfazione al sapere che qualcun altro esegue le mie composizioni. Ogni volta che ciò avviene è come se mi facessero un complimento. Vuol dire che altri musicisti sono attratti dai miei brani come io lo sono da quelli di Duke Ellington e Thelonious Monk quando scelgo di suonarli. In queste occasioni si realizza il senso ultimo dell'attività di ogni compositore: volere essere eseguito e ascoltato quanto più possibile».

Ormai il repertorio delle composizioni di Cedar Walton raggruppa titoli numerosi e appartenenti a diverse stagioni della sua carriera.

«Ho avuto trenta, quaranta, cinquanta e poi sessant'anni: in ognuno di questi periodi ho preferito alcuni dei miei brani piuttosto che altri. I brani dai quali mi sentivo più attirato cambiavano, naturalmente, col passare del tempo. Ora ho iniziato a guardare indietro, a riorganizzare le composizioni più vecchie del mio catalogo, in modo che possano nuovamente assumere un aspetto 'fresco'. Ora, diversamente dal passato, vedo tutte le mie composizioni non più come singoli pezzi ma come un corpo di opere; esse assumono un determinato senso se le guardo nella loro interezza piuttosto che come composizioni isolate. Posso ancora pensare ad aggiungere nuovi brani a questo corpus, ma sento anche che i miei primi lavori stanno assumendo un senso diverso da quello che avevano da appena composti. Come ho detto, posso rielaborare questi lavori più vecchi per rinnovarli: questa attività è quella che al momento più mi interessa per quanto riguarda il rapporto con la mia musica».

Il senso di essersi realizzato come artista, unito a quello di poter ancora proseguire nell'approfondimento del proprio universo musicale, spinge poi Walton a ignorare ogni possibile idea di competizione, a non farsi coinvolgere né influenzare da quanti si affacciano sulla scena jazzistica con l'accompagnamento di un gran frastuono dei media.

«Non posso dire di avere una mia opinione sugli altri pianisti jazz, per limitarmi ai miei colleghi di strumento. Lascio che siano i critici a comprendere e spiegare il jazz attuale attraverso una visione comparativa dei suoi vari esponenti e stili. Da parte mia, la cosa migliore che posso fare è concentrarmi sul mio percorso musicale, che è già delineato con estrema precisione».

La ricerca, in Cedar Walton, ha dunque finalmente lasciato il posto all'assaporamento dei risultati, all'osservazione della creazione compiuta. Ogni nuovo gesto musicale, sia esso compositivo o esecutivo, non deve più essere necessariamente innovativo. Walton può oggi permettersi di dare una grande lezione di jazz limitandosi a piegare a fini espressivi quello che è uno stile personale ormai compiutamente articolato. Lo ha dimostrato nei concerti tenuti a Bologna: sembrava che la tastiera del pianoforte non comportasse, per lui, la benché minima limitazione dello spazio musicale. L'estensione della testiera, per Walton, non si misura più in larghezza, ma col giungersi delle mani, in un gioco in cui gli accordi si rinserrano tra loro e con la componente melodica, in cui l'ampia campitura dell'improvvisazione nasconde, al suo interno, lo scavo nelle sottigliezze della sua personalità musicale. Si tratta di raggiungere la grandiosità dell'hard bop: senso dello swing, fraseggio, caratterizzazione timbrica, attraverso l'esaltazione dell'intimità dell'interprete.

Tra i progetti futuri di Walton vi è il completamento di un accordo preso con l'etichetta High Note per una serie di tre dischi. Il primo, in quartetto con Vincent Herring (sax contralto e flauto), David Williams (basso) e Kenny Washington (batteria), è stato appena pubblicato [Promise Land, N.d.R.]. Nei prossimi due anni Walton prevede di proseguire con una incisione in trio e una in solo, che aggiungerebbe un nuovo tassello alla discografia di ‘soliloqui' del pianista: ricordiamo il poco noto Piano Solos (Clean Cuts) e il più famoso e riuscito Blues for Myself (Red Records).

«Sto proprio ora decidendo chi farà parte del progetto in trio. Mi piacerebbe avere al mio fianco Ray Mantilla e Chucho Martinez: sarebbe un trio dall'anima latina».

Ecco qui la smentita per chi credeva che un pianista ormai approdato alla saggezza di Cedar Walton potesse davvero accontentarsi semplicemente di essa: la creatività di Walton non può fermarsi al semplice raffinamento dei traguardi stilistici che già ha conquistato. Ecco quindi prospettarsi l'incontro con un genere che sembra così lontano dal bop moderno di Walton: il latin jazz. C'è l'aria della scommessa, che Walton probabilmente affronterà con Mantilla, già suo partner in sede di concerto, ma mai in disco.

Daniele Cecchini

Cedar WALTON: cenni biografici e qualche recensione...

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Data pubblicazione: 23/05/2002





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