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Intervista con Simone Zanchini
Castroreale - 14 luglio 2011
di Vincenzo Fugaldi

Simone Zanchini (by Vincenzo Fugaldi) Simone Zanchini (by Vincenzo Fugaldi)

Simone, iniziamo con una domanda cruciale: quando, come e perché ti sei innamorato della fisarmonica?
Ho una foto con la fisarmonica scattata quando avevo due anni, pubblicata sul mio ultimo disco intitolato «My Accordion Concept». Ovviamente era una fisarmonica giocattolo, di plastica. In famiglia lo strumento c'era, perché il nonno e lo zio la suonavano per passione, per la veglia del sabato sera, e ci facevano ballare. Quindi sono cresciuto col suono di questo mantice fin da piccolissimo. Dopo è stato tutto un amore e odio... ho iniziato da bambino avendo l'immagine dello strumento folcloristico; poi, crescendo, sono arrivate altre necessità musicali. Ed è stata una lotta intestina notevole, perché a un certo punto cresci e hai voglia di studiare, e ti accorgi che non hai le possibilità di farlo, perché vent'anni fa – anche se io ho iniziato trent'anni fa a suonare la fisarmonica – quando ho deciso di studiare non esisteva l'insegnamento della fisarmonica nei conservatori, era uno strumento border line, emarginato. Ero un ragazzino che voleva studiare uno strumento che non era considerato da nessuno. Poi ci sono state le evoluzioni che sappiamo, la fisarmonica è entrata nei conservatori, e Piazzolla, anche se non era un fisarmonicista, ha portato una certa ventata di novità in Europa e si sono aperte delle porte. Però, per tornare alla tua domanda, l'inizio è proprio viscerale, legato all'infanzia e alle figure del nonno e dello zio che suonavano.



Dopo gli studi canonici (ti sei diplomato al Conservatorio Rossini di Pesaro), sei stato attirato dal jazz. Com'è avvenuto il tuo incontro con la musica afroamericana?

Faccio una premessa relativa agli studi: per la stessa ragione che accennavo prima, ho iniziato in Conservatorio con la tromba, con uno strumento alternativo, perché il mio strumento non veniva insegnato. Poi, dopo qualche anno che stavo studiando, la inserirono, e mi buttai a capofitto.  Lo swing, inteso come quella pulsazione che è il background generale del mainstream americano, ce l'avevo. Non sapevo codificarlo; mi piacevano i nomi del rock come Elvis Presley, che in qualche modo swingavano, e ascoltavo quella musica lì, perché era l'unica forma di swing che conoscevo. Il jazz è poi arrivato con una musicassetta di quelle che escono in edicola, e il primo numero era Charlie Parker. L'ho ascoltata e sono rimasto un po' sconvolto a dire la verità, perché lo swinghettino, il rock and roll li conoscevo, ma a sentire uno che suonava come un alieno queste cose cromatiche, sono rimasto disorientato. Avevo quattrordici anni, ero un adolescente. Da lì ho iniziato a interessarmi, a cercare di capire piano piano, un lavoro lungo.

Quale percorso hai seguito all'interno del jazz dopo Parker?
Il bebop è stato il background della mia iniziazione, e per un fisarmonicista è una cosa abbastanza atipica, soprattutto in Europa, dove ci sono altri canali che avvicinano i fisarmonicisti al jazz, che non coincidono certamente con il mainstream americano, col bebop. Quello è stato un periodo lungo di lavoro su quel linguaggio. Poi sono arrivati inevitabilmente i linguaggi trasversali, perché la fisarmonica è uno strumento che ha una radice etnica molto forte, uno strumento che si identifica immediatamente nel suono che ha, in modo talmente forte che a volte è difficile togliergli questa etichetta, perché ha un'identità fortissima. Quindi inevitabilmente il percorso etno-jazz a un certo punto è giunto da sé, perché in quegli anni era quasi eclusivamente quello il riferimento. O facevi il tanguero, o facevi delle cose trasversali tra l'etno-folk e l'improvvisazione. Poi a poco a poco è arrivato il desiderio di un'espressione più personale, e lì sono iniziati i problemi veri, dato che è difficile cercare una strada espressiva personale con uno strumento allora atipico per il jazz, molto ghettizzato nella musica folkloristica di un certo tipo. In questo mi sento un po' pioniere, perché in Europa siamo veramente pochissimi ad avere cercato una strada un po' più personale con la fisarmonica. Mi viene in mente Antonello Salis, che tra l'altro non è un un fisarmonicista, suona anche il pianoforte. Lì è iniziato un lavoro di conquista di un territorio più personale, che mi è costato molta fatica, molta gioia, molte gratificazioni, riconoscimenti, ma anche tanto coraggio, in certi momenti. Una fatica che ancora oggi si fa sentire, perché le strade da aprire son tante.

Hai citato il nome di Antonello Salis, e non sei il primo musicista che lo cita come un artista che ha avuto un ruolo importante nel suo sviluppo musicale. Cosa ha significato per te incontrare Antonello?
È stato un incontro fondamentale, non solo musicalmente, ma anche umanamente. È una persona che ultimamente vedo poco, ma alla quale interiormente devo tanto. È stato uno zio, lo zio Antonio! Pochi sanno che si chiama Antonio. Una volta gli comprai un biglietto per andare all'Accordion Festival di Vienna a nome Antonello Salis, e non è potuto partire, perché neanch'io sapevo che si chiamasse Antonio. Lui mi ha dato tanto, dall'alto della sua esperienza. Non è un fisarmonicista, questo sia ben chiaro, ma un musicista tout court, che suona la fisarmonica in maniera del tutto personale. Dal punto di vista prettamente tecnico è strano, perché apre e chiude il mantice come gli viene, non ha un background tecnico dello strumento. Ma non ha importanza: ha un'espressione vulcanica, personale, che comunque, in qualche modo, ha dato la possibilità di ascoltare un linguaggio, un aspetto timbrico ed espressivo della fisarmonica assolutamente alternativo alla massa, a quel che si sente di solito. Abbiamo fatto delle belle esperienze insieme, due anni molto divertenti. Chi conosce un po' Antonello sa cosa intendo. Per me che ero all'inizio dell'esplorazione di questo tipo di linguaggio, nel 1998, è stata una scuola: non abbiamo mai deciso un brano, mai deciso una scaletta, mai parlato di musica... parlavamo di pugilato, non so, di rugby, degli sport che abbiamo in comune (lui è un grande sportivo) fino a un secondo prima di salire sul palco, e poi si suonava. Quella è stata una bella scuola per me che iniziavo: l'idea dell'improvvisazione collettiva. Poi è arrivato Han Bennink, il duo è diventato un trio, e anche lì si saliva sul palco e si suonava, senza nulla. Era un'esperienza a volte traumatica, ma nello stesso tempo "adrenalinante", non so se si può dire...

Il tuo primo gruppo si chiamava Terre di mezzo, iniziato come trio, proseguito come quartetto con Ettore Fioravanti alla batteria...
Era il mio gruppo dei primi anni Novanta, quando smisi di suonare musica da ballo. È stato sicuramente importante, una bella esperienza, e appartiene al periodo trasversale dell'etno-jazz mediterraneo. Un periodo lungo, durato una decina d'anni almeno, abbiamo fatto due o tre dischi e abbiamo suonato molto. Poi, a un certo punto, a malincuore, perché negli anni eravamo diventati molto amici, ho sciolto il gruppo, proprio per questa esigenza di cercare una strada diversa, quella dell'improvvisazione. Coi componenti del gruppo [oltre a Fioravanti, Emiliano Rodriguez e Roberto Bartoli, n.d.r.] siamo rimasti buoni amici, e mi dispiace un po', ma a volte il sentire musicale va seguito.

Nel tuo mondo espressivo non c'è solo il jazz, ma anche il tango, una delle musiche di maggior successo internazionale, specie nella reinterpretazione di Astor Piazzolla...
Non ho un rapporto bellissimo con il tango, negli ultimi anni il legame con questa musica avviene solo attraverso due gruppi, uno è il gruppo della Scala [Ensemble Strumentale Scaligero, n.d.r.], col quale collaboro dal 1999, e uno è il trio con Mario Marzi e Paolo Zannini, che sono due importanti musicisti classici, e che fondamentalmente è una sorta di surrogato del gruppo scaligero. Sono i due gruppi fondamentali dell'ambiente classico, dove io ho sempre tenuto un piede, forse per destino. Il rapporto col tango? Veramente non ne posso più [ride, n.d.r.]... è una musica molto bella, che io ho suonato e qualche volta suono, passionale e sanguigna. La cosa che non mi piace, e che a volte mi infastidisce, è che spesso il mio strumento oggi viene etichettato dal tango, mentre prima era etichettato dal folklore più massificato. Magari non il tango inteso nella sua tradizione, non Astor Piazzolla, però ci sono delle forme espressive, che io chiamo "tanghite", che sono una specie di virus, perché sono forme con le quali la fisarmonica funziona, si esprime bene, cosa che a volte diventa un'arma a doppio taglio, perché ci sono dei fisarmonicisti europei che hanno trovato una strada anche personale, ma che comunque attinge al suono tanguero. C'è un suono particolare, che non è solo Piazzolla, è tutta una cultura legata alla fisarmonica, che ancora oggi è imperante. Non è un suono "diverso", non è il suono di Salis piuttosto che di un bopper americano, quello che sentiamo oggi è un suono che ha una influenza tanguera molto forte. Anche per i giovani che si avvicinano alla fisarmonica oggi il canale principale è quello.

Il quartetto che hai portato a Castroreale [Castroreale Jazz Festival 2011] è piuttosto atipico: a un batterista mitico come Adam Nussbaum affianchi un chitarrista croato, Ratko Zjaca e un contrabbassista macedone, Martin Gjakonovski. Un incontro tra il jazz e il Mediterraneo, almeno nelle premesse...
È una situazione esattamente opposta alla tanghite, intanto. Nel quartetto la fisarmonica ha una posizione e un ruolo che si tiene ben lontano dal tango e dai suoi surrogati, perché ci sono varie influenze, ma il suono generale del gruppo è collocabile in una forma di jazz dei giorni nostri. La macedonia generale dei musicisti è stata un po' un caso, anche se ci abbiamo pensato, ovviamente. L'idea era quella di creare un gruppo internazionale. Con Ratko il chitarrista, che vive a Rotterdam da più di vent'anni, ho avuto modo di avvicinarmi perché ho vissuto ad Amsterdam per più di un anno, e quindi abbiamo avuto occasione di vederci un po' di più e di suonare, dato che ci conoscevamo già da prima. L'idea è quella di fare una band internazionale dove ognuno porta la propria identità musicale, quindi ovviamente ognuno di noi ha portato il proprio mondo, le proprie influenze musicali e umane. La band è una miscellanea pazzesca, perché c'è un chitarrista croato trapiantato in Olanda, un bassista macedone sposato in Germania, un batterista americano newyorkese che è proprio il tipico americano che più americano non si può e un italiano, romagnolo. Quindi veramente gli input non mancano. Tutto confluisce, più o meno, in un suono jazzy, sempre più americano che europeo, o forse più nord europeo, se proprio vogliamo trovarci una collocazione geografica. Le composizioni originali sono diverse, in parte mie in parte di Ratko, e c'è una varietà anche a livello compositivo. Tutto confluisce in un suono che mi piace definire legato ai giorni nostri, insomma.

Suoni più all'estero che in Italia. Come vedi dal tuo mobile punto di osservazione la situazione della musica creativa nel resto d'Europa?
Suono anche in Italia, ma per essere italiano suono molto fuori dall'Italia. La situazione dell'Italia, anche se in questi ultimi anni secondo me è migliorata dal punto di vista della frangia creativa, resta sempre un po' quella: l'Italia è il paese dei teatri più belli del mondo, dell'opera, della grande tradizione, della grande conservazione. E questo, per quanto ci siano anche esponenti che tentano strade diverse, resta il nocciolo duro della nostra scuola. In nord Europa, in centro Europa, ma soprattutto nel primo Est, dove io lavoro tantissimo (Slovenia, Croazia) c'è un'apertura maggiore, ci sono meno gabbie. È un fatto culturale legato a ciò che siamo, che abbiamo vissuto, alla storia che ci portiamo dietro. Non sto facendo un processo all'Italia, io l'adoro, suono anche con tanti musicisti italiani. Quello che dico è che se nasci in un paese che ha una storia multimillenaria, che ha i teatri più importanti, la tradizione lirica e classica più importante, è difficile che che ci trovi una scena radicale, improvvisativa, contemporanea, dove le persone cercano una strada rischiosa personale di espressione che non deve essere per forza etichettabile o collocabile da qualche parte. All'estero posso suonare come mi viene e fare buona musica, in Italia non è semplice. Ecco, in questo caso io la chiamo italietta. Lo posso dire perché suono uno strumento che non è uno strumento principe dal jazz, non suono la tromba o il sassofono. Ma anche quando suoni la tromba o il sassofono, se fai delle scelte che sono meno collocabili nel suono che l'Italia riconosce, fai più fatica a esprimerti, hai meno opportunità, meno spazi, meno possibilità. Ce le hai, per fortuna, in altri posti: un paese che ha meno storia, che fino all'altro ieri aveva la cortina di ferro (mi viene in mente l'ex Iugoslavia) oggi è un paese aperto al nuovo, a tutto quello che è ricerca, sperimentazione, mescolanze di generi. È proprio un fatto di atteggiamento, di come musicisti, addetti ai lavori, giornalisti, tutti si approcciano a questo tipo di ambiente in maniera diversa, parlando sempre in generale. Questa è una cosa che un po' mi manca nel mio paese. Poi, all'estero mangio delle cose orribili... non vedo l'ora di tornare per mangiarmi gli arancini e i cannoli [ride, n.d.r.]. Ci sono delle cose belle anche da noi, ci sono dei grandi festival.... ripeto, non vorrei esser frainteso, non è un processo all'Italia, però devo sottolineare questa differenza di atteggiamento. Io ho vissuto in Olanda per un anno e ho avuto occasione di fare jam sessions in dei locali fumosi e puzzolenti dove, se erano liberi, potevano arrivare Han Bennink, Michael Moore, Misha Mengelberg, improvvisatori storici. Là c'è molta meno gerarchia nell'ambiente. Viene prima il concreto, la musica, e poi tutto il resto. Invece da noi, essendo un paese che ha la tradizione che ha, più classico, c'è questa forma di gerarchia, anche l'ambiente è diverso, qui l'abito conta molto di più.

Insieme a un ristretto manipolo di musicisti, avete lavorato per affrancare la fisarmonica dal retaggio esclusivamente legato alla musica leggera e popolare che per decenni l'aveva condizionata. È un processo concluso o necessita ancora di qualche sforzo?
Siamo ancora all'inizio. Diciamo che si è avviato bene, io sono contento di come sono andate le cose negli ultimi anni, abbiamo ottenuto dei risultati. Nell'ambiente classico già da prima, nell'ambiente jazz dopo, ma un pochino meglio le cose vanno. Siamo assolutamente all'inizio, dal mio punto di vista, il lavoro è lungo. Il mio sogno è vedere la fisarmonica usata col suo suono come qualunque altro strumento, nella musica d'oggi, nel jazz contemporaneo. E poi sarebbe bello anche, e speriamo che succeda, avere un pochino più esponenti bopper in Europa, perché non ce ne sono. Sarebbe bello avere negli anni più musicisti che sappiano esprimersi attraverso un linguaggio che sappia veramente di jazz, che abbia meno questo sapore fisarmonicistico. Mi piace pensare a dei musicisti che suonano la fisarmonica, piuttosto che a dei fisarmonicisti, proprio per le ragioni che ho espresso finora. Se lo fai da fisarmonicista, e fai il leader tradizionale, è inevitabile che finisci in quel fosso lì. Quindi speriamo che nel futuro ci siano queste occasioni. Non so, mi viene in mente il concerto di Foligno, dove Jim Black ha chiesto di avere una fisarmonica nel gruppo [si tratta del gruppo Jim Black's Cani da Salvataggio, che ha suonato al festival Young Jazz il 27 maggio 2011, n.d.r.]. Segno importantissimo, perché parliamo di un batterista modernissimo che si esprime in un jazz del tutto odierno, contemporaneo, personale, che chiede la fisarmonica nel gruppo, ma attenzione: non chiede la fisarmonica per avere il colore tango-folk come spesso succede, ma la chiede perché sia solista col tenore e faccia dei temi articolati, usi un suono, dislochi questo suono e porti un linguaggio cromatico, moderno. Ecco, questi sono i primi segnali, secondo me, che mi fanno sperare di vederla sempre di più in questo tipo di ambiente. È questo il mio desiderio.

Oltre a questa attualizzazione della fisarmonica, qual'è il tuo rapporto con l'elettronica?
Un rapporto contrastante. C'è stato un periodo in cui ho proprio sentito l'esigenza di inserirla. La fisarmonica è uno strumento iperarmonico e iperacustico. Quindi a un certo punto, proprio per assecondare questa mia ricerca, è arrivata l'esigenza di usare suoni che provenivano da altre fonti, e c'è stato un periodo di lavoro che è durato due anni, dal quale è nato un disco, che si intitola «Better Alone», che è un disco in solo dove uso macchine, laptop, una fisarmonica midi, che è uno strumento particolare che legge suoni elettronici, li espande, eccetera. Dopo due anni di ricerche è nato questo lavoro. L'elettronica intesa come supporto del suono acustico c'è sempre, anche nelle mie situazioni live. Anche in una situazione come quella di stasera, dove c'è un quartetto che ha una formazione standard [si riferisce al gruppo ZZ Quartet, che ha suonato al Castroreale Jazz Festival il 7 agosto 2011, n.d.r.], e ce n'è meno bisogno, ma anche in questi casi, comunque, per me manipolare il suono dello strumento è fondamentale.

Ti esibisci anche con altri gruppi, vuoi fare un cenno ad alcune?
Non c'è un gruppo al quale sono più affezionato... sono talmente diversi tra loro che ogni gruppo mi consente un'esperienza diversa. Ci sono gruppi più nuovi e gruppi più consolidati: il Trio Cagliostro con D'Agaro e Ottolini, ad esempio, è ancora in fase di ricerca, registreremo un disco in questo periodo, è un work in progress. Ci sono altri gruppi che sono invece ormai una certezza, come il duo con Frank Marocco, con cui ho fatto un disco nel 2006, perché è l'unico fisarmonicista della vecchia scuola – a anche della nuova – che possiede veramente un meraviglioso linguaggio bebop. Sono stati due i miei grandi maestri: Art Van Damme, e Frank Marocco. Art è deceduto quest'anno, ho fatto un disco a lui dedicato che si intitola «Fuga per Art», e ho avuto modo di suonare con lui un paio di volte, ma tanti anni fa. Invece con Frank, che è ancora attivo, abbiamo fatto un disco di tutti standard, perché mi esalta l'idea di sentire il linguaggio di Clifford Brown col suono di una fisarmonica, e Frank appartiene a quella scuola lì, ortodosso, filologico, meraviglioso. Poi c'è il gruppo scaligero, dal 1999. Lì mi occupo del Novecento, della parte più moderna del repertorio. Sono stati fatti degli arrangiamenti apposta per noi dove c'è la fisarmonica, mi vengono in mente West Side Story di Bernstein, Un americano a Parigi e Porgy And Bess di Gershwin, ed è una cosa abbastanza unica in seno a un ensemble classico, un quintetto con fiati, archi, pianoforte, percussioni, con un ruolo della fisarmonica che dà prestigio allo strumento.














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Data pubblicazione: 04/02/2012

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