Intervista a Giulio Risi
Nemesi fra musica, arte e filosofia
di Fabrizio Ciccarelli
Giulio Risi
è un artista che incuriosisce, che non può lasciare indifferenti, non fosse altro
che per la verve con la quale affronta ogni discorso d'ogni natura. Ho spesso avuto
la sensazione che le sue parole fossero come le sue note, riflessioni estetiche
dai perimetri stilistici ben delineati, angolazioni armoniche interessanti, dense
di pathos, coinvolgenti. Al di là di ogni scelta virtuosistica, si propone sempre
in modo eclettico, agile nei cromatismi e nelle attente e flessuose improvvisazioni,
suona un jazz intelligente, compone pentagrammi i cui "parametri discorsivi" percorrono
con originalità molte nuances della musica del '900. Il piacere del suono
si direbbe uno degli elementi centrali del suo sound. Probabilmente lo è. E per
me è il piacere dell'ascolto, semplicemente.
Studia Musica classica negli anni ottanta, dal
1993 lavora da professionista in ambito pop
e rock, quattro anni dopo si trasferisce a Londra, nel
1999 esce il suo primo cd "Partido alto" che ottiene la
candidatura alla finale del premio "Perrier Jazz giovane talento dell'anno" tenuto
allo storico jazz club "606" di Londra. Un ottimo album che non passa inosservato,
una volta tanto, agli occhi della critica….i nostri tra i primi, immodestamente.
Da quell'anno pur continuando a lavorare come session musician nel mondo della musica
pop/rock, si esibisce come band leader del Giulio Risi Jazz Trio.
Nel 2002, inizia a comporre colonne sonore per
Cinema e TV e scrive un libro di narrativa e poesie "L'arcano fascino della disperazione".
Nel 2006 esce il secondo album, "Deep
down where the heart beats no more," un viaggio virtuale intorno al mondo con
undici brani che esplorano undici diverse nazioni, registrato con celebri musicisti
fra Londra L'italia e l'Andalusia; un disco che ho recensito con sincero
"affetto" e di cui in molti hanno argomentato, in Europa e negli Stati Uniti. Nel
2007 entra a far parte della band progressive
rock Jadis, già prodotta dai Marrilion, con musicisti di fama
mondiale (e, in camera caritatis, "anche di fame mondiale", ironizza
Giulio).
Dal 2008 lavora fra Roma e Londra dove
continua a far concerti con la band Jadis (un nuovo tour probabilmente nel
Marzo del 2010 in Russia e paesi dell'est Europa)
e con il Giulio
Risi Trio.
Dal 1 dicembre "Deep
down where the heart beats no more" sarà distribuito in forma di download
digitale sui network
iTunes
e Cd Baby.
Un'ultima informazione prima dell'intervista: è in preparazione il suo primo
lavoro "cantautorale" il cui titolo è "Nemesi di un'araba fenice" con diversi
ospiti della musica e del teatro italiano. L'uscita è prevista nel
2010.
Proposta l'intervista, Giulio premette:
Non amo molto parlare di me, quindi ti offrirò delle digressioni. Forse non troverai
la risposta alle tue domande, ma avrai una visione più generale del mio mondo. Una
cosa che mi ha sempre fatto un po' sorridere è la definizione che una mia amica
scrittrice, Bettina Gracias, ha dato del mio modo di parlare, paragonandolo
a "un assolo jazz". Dice:" Giulio parte da un tema, poi devia in altre considerazioni
che, dopo un po', cominciano a esser parte del tema stesso. Spesso, essendo sempre
generoso di citazioni, fa intervenire altri "musicisti" nel suo discorso-assolo".
E allora il dialogo intriga ancor di più. Iniziamo con sincero intento di
session.
È' da un po' di tempo che non ti si ascolta in CD…
La promozione di "Deep
down where the heart beats no more" è andata avanti fino alla
metà del 2007. Poi mi sono guardato dentro ed
ho visto il silenzio. Ho quindi deciso per un periodo - non so quanto lungo - di
non suonare più live. Ciò è stato anche in qualche modo "agevolato" dal fatto
che da Londra (città che come sai ha ospitato gran parte della mia vita musicale)
mi sono trasferito a Roma dove, a dispetto delle molte recensioni del disco, non
mi conosce praticamente nessuno; sarei quindi obbligato a prendere contatto con
locali, festivals ecc per organizzare concerti. Non ne ho voglia, questo management
di me stesso mi ha un po' stancato. Al momento sto preparando un disco completamente
diverso dal precedente, "cantautorale", con accenni teatrali, fra Jazz ed
Ethno.
Quali erano i tuoi progetti quando hai esordito e quali
sono ora?
Mi verrebbe da dire musicisti si nasce ma si diventa. Non avevo sogni,
solo incubi in quantità industriale. Ancora ne sono visitato.
Cosa intendi per "arte"?
Una parola desueta, di cui si è troppo abusato. Si cita spesso a sproposito.
Sarei tentato dal risponderti "non parliamone più". Nel corso di quest'intervista
citerò la parola in contesti dove ritengo dovrebbe esser fulminata;
e
te lo farò notare. Nella prefazione di "Deep down where the heart
beats no more" ho scritto che la vera arte, più che dire, dovrebbe
far dire. Vorrei tuttavia aggiungere la definizione data da un mio amico fotografo,
coltissimo e folle come un cavallo, Marcello Benassai. In una conversazione sbevazzata
di qualche tempo fa, mi disse più o meno "odio molte cose della vita, perché
tutto mi dà l'impressione che mi porti via del tempo prezioso. Odio la sensazione
del tempo che vola via, mangiato dalle cose su cui ci soffermiamo. L'arte che sento
vera è quella che mi da la sensazione che non mi stia rubando il tempo".
Ecco, oggi mi piace far mia quest'intuizione di Marcello.
Ti rispondo con una riflessione di Schelling:"Compito
dell'arte è raggiungere l'assoluto, inteso alla maniera di Plotino, situato al di
là del processo conoscitivo, cioè di quella conoscenza puramente teoretica che in
quanto tale è limitata e finita". L'Assoluto per il filosofo è inconoscibile perché
conoscere significa collegare, relazionare qualcosa con altro da sé; ma poiché l'Assoluto
ha già tutto dentro, non ha un termine di riferimento esterno con cui possa relazionarsi.
Può essere questa una provocazione per la tua sensibilità?
L'incipit della frase di Shelling non mi piace. Per me "compito dell'arte"
è un ossimoro. Poi, certamente, l'assoluto au-delà del processo conoscitivo,
è ciò che potremmo sintetizzare dicendo "emozione". Ma è sempre riduttivo, le emozioni
non possono trovar parole, sono indefinibili, nel momento in cui cerchi di spiegarle
o di spiegartele, esse sfuggono, quasi sdegnate o consapevoli che chi vuol capire
- o carpire – il senso dell'emozione, in fondo non la meriti. Quando parli d'amore
o di odio le parole sono sempre insufficienti. Le emozioni sono stelle cadenti,
non puoi e non devi provare ad afferrarle. C'é riuscito solo Dante, nel trentatreesimo
del paradiso, a parole…
Ricollegandoci alla definizione su cui il neo-platonico si volle sperticare (ed
è quanto mai curioso che Plotino, un esegeta, abbia dato una tal definizione), dico
che un'emozione è l'assoluto, ha tutto in se, compreso chi tenta di codificarla
intrappolato all'interno dello stucchevole "che vuol dire", come fosse un eretico
che tenta di lanciare segnali di fumo dall'interno di un falò.
Cosa intendi per "jazz"?
Il nulla. Detesto irreggimentare le categorie musicali. C'è la vita; quella di
alcuni di noi è talvolta attraversata da ciò che altrove si definisce "Jazz". In
quei casi chiamiamo il Jazz "vita". Sempre parole, che sgambettano loro stesse,
si sovrappongono e si esautorano a vicenda (una considerazione che mi spinge verso
il discorso sempre attuale e interessante sul linguaggio che fa Jacques Lacan, portando
a livelli ancor più alti gli studi di Ferdinand de Saussure).
Ed appunto riferendoci a Lacan; l'arte è un luogo di
menzogna o è l'unico luogo in cui non può esservi menzogna?
L'arte è un gioco. Non uno scherzo. Un gioco. Lo ha spiegato Freud molto
bene. E quando i bambini giocano, inventano delle storie, dei non-luoghi. Un adulto
direbbe che un bambino che si auto - proclama "principe" sta mentendo. Il bambino
in quel momento crede davvero di essere un principe, un piccolo principe.
Se proprio vogliamo e dobbiamo scorgere delle menzogne nell'arte, sono senz'ombra
di dubbio le stesse che scorgeremmo in una seduta psicoanalitica in cui il paziente
cerca inconsciamente – se è onesto – o scientemente – se è disonesto - di sfuggire
all'analista e quindi a se stesso. Lacan docet o, se ti pare, docetur.
Arte, Jazz, sono lemmi. Se si è qualcosa, difficilmente se ne riesce a parlare.
Mi viene in mente la bella frase di Pascoli che, intravedendo ciò, chiosava "il
dolor è ancora più dolor se tace". Non bisogna esser musicisti per parlare
di musica; bisogna esser persone sensibili e quindi, per tornare a ciò che dicevamo
prima, "artistiche". Ripeto spesso che non c'è cosa più noiosa di un musicista che
parla di musica, uno scrittore che parla di letteratura ecc. Qualcuno tempo fa li
inceneriva dicendo "un artista che parla della propria arte è insopportabile
come una madre che parla dei propri figli". Il drammaturgo Leo de Berardinis,
da poco scomparso nell'indifferenza generale, scrisse cose egregie sul jazz, sul
concetto di assolo come espressione primaria della solitudine dell'artista. Inviterei
inoltre un po' tutti a meditare sul fatto che il migliore manuale di armonia è stato
scritto da Arnold Schönberg, uno che l'armonia l'ha scientemente demolita.
Forse il musicista viennese l'ha demolita perché ne
ha intuito in un certo senso la "morte"….egli intendeva sottolineare la necessità
di un' estetica diversa, non accademica, libera, poi ha finito col dare il via ad
un'Accademia diversa, ma pur sempre improntata a codici espositivi molto catalogabili.
Schönberg aveva a mio avviso compreso in toto la storia della musica
manifestatasi fino a quel momento, come ha ampiamente dimostrato nel "Manuale
di armonia". Quando arrivi a comprendere interamente il significato di una cosa,
la incameri, la archivi e procedi oltre. In quel momento storico l'"oltre" non esisteva.
Quindi se n'è genialmente creato uno, non credo per offrire al mondo un'estetica
diversa, ma per offrirla a se stesso e, di riflesso, al mondo. Quanto al fatto che
i codici della pantonalità shonbergiana siano catalogabili, ciò è vero perché
la dodecafonia è musica seriale; ma non ho affatto detto che il compositore ha creato
una musica non catalogabile, dico solo che ha sepolto il concetto di estetica armonica
presente nella società di fine Ottocento, primi del Novecento.
Esiste sempre un punto di contatto fra musica e società?
Nel mondo occidentale esiste una musica di società ma non una società permeata
di musica. Sono stato nel 2008 in Etiopia per
un concerto e, girando per i villaggi, ho ascoltato società permeate di musica.
La stessa cosa l'ho notata in Brasile l'anno prima. Il primo punto di contatto fra
musica e società sembra esser la fame. Il samba è una musica definita allegra,
piena di vita. T'invito a osservare la vita di un musicista o ballerina di samba
in Brasile. Quasi tutti provengono da favelas malfamate, con storie familiari che
rasentano i romanzi più cruenti di Edgar Allan Poe o le immaginifiche e "cattive"
inquadrature di Kubrick. Dietro un sorriso ostentato si cela spesso la tragedia.
Condivido: molto spesso si ragiona per assiomi inesistenti,
veri e propri luoghi comuni, trionfi di banalità che ora noi, mi sembra, almeno
proviamo fortemente ad evitare…
Ergo, procedendo per assiomi comparati, un punto di contatto fra musica e società
mi sembra poco immaginabile nello scenario di para-cultura che infesta il mondo
occidentale.
Qual è la tua opinione circa il momento attuale del
jazz?
Credo che il jazz abbia perso la connotazione dirompente che ne ha caratterizzato
il periodo più glorioso. La rivolta del Be Bop contro l'humus razzista,
la lotta per uscire dal ghetto. La musica intesa come veemente arma da guerra.
Cinquant'anni fa si suonava in maleodoranti sottoscala, fra topi e risse a base
di whiskey. Oggi per sentire un concerto jazz al Ronnie Scott's di Londra
o al Blue Note
di New York (per citarne due fra centinaia), l'ascoltatore è costretto a spendere
uno sproposito, se va bene per ascoltare un solo set. In molti casi, per aver un
posto a sedere, la prenotazione per la cena è obbligatoria. Il Jazz è tornato a
essere mero "swing" d'intrattenimento, la stessa musica che le orchestre suonavano
in divisa per divertire i ricchi bianchi americani; è divenuto musica esclusiva
dell'elite che sbeffeggiava, che si prefiggeva di combattere. Una musica borghese,
dirimente, che strizza l'occhio a finti salotti giacobini. Un esempio rappresentativo
della sottile e insidiosa linea d'ombra che delimita l'arte e il business è il quartiere
di Soho, a New York. Negli anni sessanta era un luogo malfamato, fulcro d'artisti
d'ogni genere che "occupavano" molte abitazioni. Essi furono messi alla porta subito
dopo aver contribuito alla rinascita di quel quartiere. Soprattutto, in soldoni,
ufficiosamente contribuirono all'innalzamento dei prezzi delle case, che, trovandosi
quindi in una zona di "artisti" – di nuovo quella parola usata a sproposito – valevano
dieci volte di più. Il business si è appropriato anche dell'arte. E l'ha fatto in
modo subdolo. Al giorno d'oggi il valore artistico di un quadro è dato dal suo prezzo,
non da altro. Tornando alla musica, in buona sostanza la questione può esser liquidata
in due parole: cinquant'anni fa i musicisti Jazz suonavano per esprimere ribellione
sociale e brandivano gli strumenti come armi. Oggi, in Italia, un noto pianista
Jazz fa la pubblicità dell'acqua minerale….
Quali consideri i tuoi punti riferimento per le blue
notes?
Posso dirti i musicisti che ho amato. E non sono necessariamente dei punti di
riferimento. Quando suoni non pensi ai referenti. A bocce ferme, rispondo che ho
amato e amo molto
Bill Evans.
Anche in questo caso reputo importante l'uomo e non il pianista, non il musicista.
Ritengo poi che ogni persona dotata di un minimo di sensibilità non possa prescindere
dalla delicatezza rara di alcune ballads di
Luca Flores.
Più "tecnicamente" i miei studi, oltre
Bill Evans
che mi affascinava per le armonie e le scomposizioni ritmiche, si concentrarono
sul fraseggio di
Bud Powell e Oscar Peterson. Ebbi anche un periodo "Parker"
durante il quale studiavo gli assoli dell'Omnibook a due mani (due ottave
di distanza, all'unisono). Ergo una formazione basata sul Be Bop, sul pianismo
Latin-esuberante di
Michel Camilo,
su quello del "tuttologo" Corea, mai perdendo di vista il punto da cui ero
partito, Jimi Hendrix, Led zeppelin, anche Jerry Lee Lewis
e i classici (fra tutti certamente Frédérich Chopin).
Proviamo ad immaginare il tuo futuro.
Oddio….prevedo stagioni di barbarie … (sorride). A Roma, al Vittoriano, in questi
giorni c'è un'interessante mostra sulle mura megalitiche. Mentre la visitavo, ho
pensato che anche noi musicisti in fondo siamo dei monoliti e, come quelli che compongono
le mura in questione, non siamo uniti da calce o collanti vari. Ognuno è un pezzo
a sé, grande o piccolo e, suo malgrado, parte di un unico muro su cui altre persone
in modo arbitrario lo pongono. Non bisogna ricercare fratellanze, dobbiamo piuttosto,
per dirla con D'Annunzio, far di noi stessi un'isola e, aggiungerei io, consentire
l'approdo solo a poche, sceltissime persone che non vìolino la nostra sensibilità
con emulsioni di volgarità e di tedio. Ecco, questo è certamente il mio progetto
per il futuro. Per ciò che concerne il resto, saprò di più quando sarò finalmente
riuscito a interrogare la mia ghiandola pineale, sede dell'anima, secondo Cartesio.
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Data pubblicazione: 10/11/2009
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