Buona opera prima per Gian Tornatore, sassofonista italo-americano dotato, oltre che di un buon bagaglio tecnico, anche di una spiccata attitudine verso la melodia (forse conseguenza delle sue radici agrigentine), aspetto, questo, sempre presente – anche soltanto ritagliato nell'ambito dei suoi giri d'estemporaneità – pure quando si trova ad affrontare brani dall'impronta più marcatamente africana.
L'album si avvale del timbro tremulo ed evanescente del Fender Rhodes, introdotto fin dall'apertura e perfettamente in tono con l'atmosfera "volatile" di For RPMS: un brano ben ancorato a terra dal corposo e ritmato disegno del contrabbasso soltanto, piuttosto che dalla batteria, anch'essa impegnata a proiettare, con gli aloni vibranti dei piatti e le leggerissime punte delle sticks sui tamburi, una certa "spazialità" pluridimensionale. Sottili i meandri entro cui s'infilano gli impalpabili tasti del Fender, ad infondere pacatezza all'esecuzione, e su tutto, le lievi spire arabeggianti del tenore del titolare, che divengono più consistenti e roche nel crescendo finale. Ma in Heaven's Dew, a parte le armonie volutamente sfuggevoli che, nell'introduzione rimata con il piano, spargono accordi sull'impalcatura architettata dalle mazze di
Christian, il tenore di Tonatore sa anche essere struggente, e quando il drummer passa alle spazzole,
Wallmark scocca un assolo di notevole lirismo, amplificato dalla corposità della calda voce del suo contrabbasso. Più raccolto il tocco del piano rispetto al Rhodes, delicatissimo il percorso delineato in estemporanea dal tenorista, molto soffuso in coda.
E le ambientazioni si alternano fra l'acustica e l'elettrica, a seconda che la sezione ritmica ricorra alla tastiera d'avorio del piano o a quella in resina del Fender: così in San Francisco Style, in cui le escursioni di
Anderson e le evoluzioni di Tornatore imprimono un taglio elettro-jazz che pur ricordando certe sonorità anni '70/'80, tuttavia non lascia spazio a polverose nostalgie. Splendido il molle pedale sferzato dalle corde del contrabbasso, subito fiancheggiate dalla batteria, a preludere l'acceso intervento solitario di
Tornatore, ancora al tenore, che con toni a tratti acidi conduce l'ascoltatore all'interno della propria musica felice e sprizzante. Chiusura delle corde di
Wallmark, scortato quasi fino all'ultimo dalle percussioni di Christian, solido e affidabile l'affiatamento dei due. Intermezzo tanto particolare quanto al di là delle righe è quello del Preludio in do minore di Chopin, che per quanto ben eseguito in combinazione dall'archetto di
Wallmark e dal leader adesso al soprano, resta pur sempre una parentesi stagnante, sebbene di breve durata. Resta il soprano in bocca al sassofonista a tracciare le linee melodiche della successiva Upstate, sulle quali si depone scattante ed intelligibile nelle sue variazioni all'impronta il tornito pianismo di
Anderson, scarna l'armonia su tre accordi sottolineati dall'elastico pedale del contrabbasso: qualche momento d'attesa e poi s'insinua l'assolo del soprano, che solamente verso la fine, comunque, riesce a dare il meglio. Il finale è rimesso ad un obbligato sotteso dal spumeggiante riempimento improvvisativo del batterista.
Poetico il sassofonista, tornato al tenore, che sull'esposizione motivica della lenta Lotus soffia dei densi e distesi allunghi di note, ben sostenuti nell'intonazione, che sorvolano le progressioni accordali del piano ed i fruscii appena appena cadenzati del
brushing di Christian. E dopo il rilassato turno del pianista, fra le ampie maglie di questa distensiva composizione del tenorista, c'è spazio per il punteggiare introspettivo del contrabbasso, secco sugli acuti, a tratti stoppato, elastico sui gravi, articolato nel suo racconto monodico. Fra quelli soft, forse il pezzo più intenso. Saltella sul ride di
Christian – suddiviso in ottavi – l'incisivo tempo composto di Three's a crowd (forse con un velo d'ironia nel titolo), protagonista ancora il soprano che ben si attaglia al feel viaggiante del brano, là dove anche
Wallmark mostra di sapere il fatto suo sull'andamento più stretto, cesellando un contrappunto scorrevole e brillante. Cambio di scenario ritmico sul turn around finale, un regolare 4/4 in cui persino la batteria si limita ad accentare secondo e quarto movimento, quasi a voler rinnegare - o forse rimarcare per contrasto - quanto fatto in precedenza. E giusto per confrontarsi pure con il repertorio jazzistico degli standard, l'ultimo numero in sequenza è una raffinata interpretazione della milesiana Nardis, che attraversa molteplici scansioni ritmiche prima di adagiarsi definitivamente sull'incalzante walking bass dell'ottimo
Wallmark. Vi si distinguono il prezioso pianismo elettrico di Anderson
ed una piccola gioia: l'incastro fra l'imprendibile assolo del tenore ed il tracimante drumming di
Christian, capace di una pregevole poliritmia stratificata fra la concentricità dei suoi piatti e le roboanti profondità dei suoi tom, contornate da rullate di passaggio. E sull'ultima, l'inesausto tenorista ha modo di rientrare lungo le fila dell'originale tracciato tematico, per condurre il pezzo, sui declivi ritmici, fino a chiusura.
Antonio Terzo per Jazzitalia