Animato da un'evidente verve e da un'inventiva tanto pirotecnica
da apparire talvolta quasi poco interessata alla cura strutturale del brano, "Blues
from Mars" è il terzo album di Elliott Caine.
I primi due ne hanno imposto il talento nell'àmbito del miglior mainstream
d'oltreoceano, quello californiano, avvolto ed impreziosito dalla brillantezza cromatica
del Latin jazz, come sembrerebbe rivelare la scelta del band leader di una ritmica
in cui spesso compaiono, nel corso della musica proposta, le congas così come andamenti
sonori di sapore caldamente caraibico.
Anche in questa prova l'afro ed il Caribe scanditi con tanto vigore disegnano
tappeti sonori su cui Elliott così come il tenorsassofonista Carl Randall
ed il vibrafonista DJ Bonebrake, in ottimo interplay, tessono alchimie
armoniche di suggestiva atmosfera, tutt'altro che estranea – e ciò può sorprendere
– allo stile Blue Note degli anni '60, cui del resto sembrano rimandare tutti i
bravissimi musicisti con cui egli ha realizzato il cd.
La spontaneità dello spirito del musicista talora può tradursi in un'istintività
un po' selvaggia, in impatti emozionali postbop che egli stesso sembra quasi
non poter dominare. Ad un primo ascolto ciò potrebbe apparire, mancanza di "controllo"
nell'improvvisare o addirittura nell'ideare il brano stesso. In realtà, a parere
di chi scrive, gli effetti vocalizzanti del gioco dei mezzi pistoni e dei glissandi,
così come la precisione nel registro sovracuto risultano frutto di ricerca dell'essenzialità
del suono, come nell'irruenza e nel nitore di "La verdad
es la verdad".
L'opera è non di rado connotata da un furore ritmico e da assoli brillantissimi
che paiono dimostrare quanto il trombettista consideri importante più una propria
crescita continua che l'iterazione all'infinito di "colpi di scena" di grande effetto
e pari, immaginabile, presa sul pubblico.
Ecco allora che può essere colta, dal lato compositivo, una raziocinante
inventiva, un'organizzazione dell'ensemble molto accurata, senza che mai
i soli perdano in spontaneità, suscitando in chi ascolta l'emozione provata più
volte nei fraseggi di un Clifford Brown, di un Fats Navarro
o, come più intuibile, nell'inquieta e magnifica creatività di un Lee Morgan,
uno di quegli strumentisti che nell'uso della tromba realizzò una voce individuale,
irripetibile ed inimitabile.
Elliott appare coscientemente debitore tanto all'impeto ritmico quanto
alla varietà timbrica di cui il trombettista di Philadelphia è ancor oggi maestro,
e che sintetizzò in "The Sidewinder" cogliendo quasi alla sprovvista la critica
americana. Morgan morì a 33 anni, ucciso a revolverate da una sua ex amante,
di fronte al locale in cui si esibiva. Morì come aveva vissuto. La vicenda impressionò
il pubblico che lo elesse a figura eterna d'artista inquieto e "maledetto". Elliott
non manca di ricordarlo nei contrasti stilistici con i suoi sassofonisti, nella
profonda espressività della sua sintassi jazzistica, nell'eleganza passionale del
suo "tocco" Blue Note sì, ma così personale e, a ben sentire, profondamente introspettivo.
Varrà dunque la pena prestare attenzione a ciò che il talento del nostro
potrà ancora offrire in futuro, augurandoci che anche in Europa abbia egli la volontà
di esibirsi, se questi sono gli esordi…
Fabrizio Ciccarelli per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 26/05/2007
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