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Bobby
Watson & Taylor Made
with Tokyo Leaders Big Band
Live at
"Someday" in Tokyo
1. Dual Conversation
2. Ms B.C.
3. Karita
4. Long Way Home
5. Unfold
6. In Case You Missed It
Robert "Bobby"
Watson
- Alto Sax/Leader
Shiro Sasaki, Mitsukuni Kohata, Keiji Matsushima, Yoshiro Okazaki -
Trumpet
Hideaki Nakaji, Haruki Sato, Masahiko Kitahara -
Trombone
Masaki Domoto - Bass Trombone/Tuba
Seiji Tada, Atsushi Ikeda -
Alto Sax
Tatsuya Sato -Tenor Sax
Kose Kikuchi - Tenor Sax/Flute
Atsushi Tsuzurano - Baritone Sax
Masaaki Imaizumi - Piano
Koichi Osamu - Bass
Tappy Iwase, Yoshinobu Inagaki -
Drums
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Una ventina d'anni fa, prima di porsi alla guida di numerose formazioni
da lui create o di partecipare a gruppi all-leaders, Bobby Watson militò
in una formazione che non necessita di presentazioni, i
Jazz Messengers
di Art Blakey ("Fu lui a
insegnarmi che non dovevo cercare di esprimere tutto me stesso in un unico
assolo"). Coi Jazz Messengers, Watson affinò la tecnica e le capacità
solistiche.
Le prime possibilità di presentarsi come leader gli furono invece date da
una delle più importanti etichette indipendenti italiane, in ambito jazz, la
Red Records di Milano.
"La Red mi ha dato la possiblità di registrare e suonare a Milano ma,
soprattutto, di esprimermi finalmente come leader".
Al
1985
risalgono i primi
dischi dell'altosassofonista di Kansas City per la Red:
Appointment in Milano
(che rimane a tutt'oggi uno dei migliori esiti discografici di Watson) e
Round
Trip, registrati congiuntamente; a fianco del sassofonista si trova un trio
ritmico italiano, l'Open Form Trio, composto da Piero Bassini (pianoforte),
Attilio Zanchi (contrabbasso) e Giampiero Prina (batteria): si tratta delle
uniche incisioni di Watson al fianco di musicisti italiani. "Non c'è un
contratto formale tra me e la Red, ma per me si tratta di un impegno per la
vita, di una rapporto di fiducia con Sergio (Veschi, proprietario e producer
della Red; N.d.R.). Ho inciso, e continuerò a farlo, per delle major come la
Blue Note e la Sony/Columbia. In futuro potrei anche lavorare con altre grandi
labels, ma non con un'etichetta indipendente che non sia la Red, per lo meno non
in Europa".
Red Records vuol dire Sergio Veschi, un discografico che segue
personalmente una buona parte delle sue produzioni, andando in studio coi
musicisti; questo, per lo meno, quando non si tratta di produzioni realizzate
all'estero, vista l'attitudine della Red a far incidere i propri artisti nei
loro luoghi d'origine, senza forzarli a spostarsi in terra italiana. "Ho
incontrato Sergio al club Le Scimmie, a Milano; l'ho conosciuto perché mi prestò
il suo sax contralto per suonare. La proposta dei progetti per i dischi può
venire da me come da Sergio. Per esempio, l'idea di un CD in completa solitudine
(This Little Light of Mine, su CD Red Records 123250-2; N.d.R.) è stata sua. Mi
ci sono voluti alcuni anni per accontentarlo, ma alla fine ce l'ho fatta. Invece
Quiet as It's Kept
(CD Red Records 123284-2), il mio più recente CD come leader
per la Red, è nato da un mio desiderio di proporre un repertorio più rilassato,
più riflessivo. Ora abbiamo per la testa un progetto che prevede la creazione di
una formazione all-stars completamente europea, con me alla guida. Vorremmo
riunire alcuni musicisti che piacciono molto a Sergio con altri che piacciono a
me, come Dado Moroni".
In questo momento, gli interessi maggiori di Watson ruotano attorno a due poli:
il quintetto Horizon e le formazioni di grandi dimensioni. La prima incisione di Watson con una propria orchestra risale alla
fine del
1992: si tratta di un CD edito dalla Columbia intitolato semplicemente
Taylor Made, ovvero col nome dell'orchestra messa assieme da Watson. In essa il
sassofonista aveva chiamato a raccolta i musicisti dei suoi piccoli ensemble,
creando una specie di "famiglia allargata" ("La big band è una situazione
particolare: si instaurano rapporti d'amicizia e si crea una particolare
familiarità tra i componenti dell'orchestra"). Si trovavano così riuniti, tra
gli altri, Terell Stafford, Stephen Scott, Essiet Essiet e
Victor Lewis (ovvero
gli Horizon al completo) e anche Ed Jackson, Rich Rothenberg e Jim Hartog, che,
con Watson, formano il quartetto di sassofoni
29th Street, il cui
Live
(CD Red
Records 123223-2) è un altro dei capisaldi della discografia del sassofnista
statunitense.
Nel primo CD con la big band, Watson sembrava ricoprire solo il
ruolo di direttore, oltre a quello di compositore-arrangiatore. "Con l'orchestra
mi esibisco come solista, dirigendola al tempo stesso, ma mi piace anche solo
starmene a guardarla mentre suona i miei brani. Effettivamante, però, nel
libretto del CD
Taylor Made
non sono stato indicato come solista al sax
contralto. Inoltre c'è una mia foto mentre dirigo che può avallare ulteriormente
l'idea che io mi limiti a dirigire l'orchestra. Ma non è così: imbraccio anche
il sax come solista, anzi, sono soprattutto un solista. In quell'occasione avevo
avuto la necessità di dirigere l'orchestra in maniera ‘classica' perché si
trattava di eseguire brani nuovi". Quel CD con la big band Taylor Made era
dunque solo un primo movimento di avvicinamento a un ben preciso obiettivo da
raggiungere con questo tipo di organico; Watson ha in mente un percorso da
compiere con gli uomini della sua orchestra: "Il punto d'arrivo sarà quando i
musicisti avranno ben memorizzato tutti i brani, in modo da poterli trattare con
familiarità. Per me, l'orchestra è come una piccola formazione allargata; i suoi
membri devono essere in grado di improvvisare sui materiali, fornire
l'accompagnamento, 'lanciare' dei riff per gli assoli con la stessa facilità che
se suonassero in un quartetto. Inoltre, vorrei vedere dei movimenti sul palco;
non voglio creare un'altra di quelle orchestre i cui musicisti se ne stanno
seduti dietro i loro leggii. Voglio che, se un sax duetta con un trombone, i due
musicisti possano avvicinarsi tra di loro. Voglio poter camminare verso chi
duetta con me. Per esempio: in una mia composizione,
The Fear, la melodia è
eseguita dalla tuba, sostenuta da un trio con tromba sordinata, flauto e
clarinetto. Poi subentro io col sax, assieme agli altri fiati, mentre gli
strumenti precedenti continuano a suonare, ma sullo sfondo. Segue quindi una
serie di passaggi di testimone tra il trio più tuba e il resto dell'orchestra.
Tutto ciò richiede di essere relizzato in performance, perché si possano
fisicamente rendere visibili questi cambiamenti nei rapporti tra gli strumenti:
il centro della scena e il background. Quando i miei musicisti sapranno eseguire
le loro parti e improvvisare su di esse senza più la necessità di avere davanti
a loro una figura direttoriale, nel senso tradizionale, avrò raggiunto il mio
scopo. Vorrei trovarmi davanti all'orchestra e poter pensare solo ai miei
assoli; è per questo che preparo gli arrangiamenti per la big band su misura
(‘taylor made'; N.d.R.) per me".
Tra il Taylor Made realizzato per la Columbia e il live giapponese edito ora da
"Audiophile Sound" assieme a Red Records non sono state pubblicate altre
registrazioni di Watson assieme a una big band: una pausa di più di sei anni.
"La big band è un organico col quale mi piacerebbe poter lavorare più spesso, ma
ormai da molti anni la situazione per questo tipo di formazioni non cambia. Il
problema è sempre lo stesso e non c'è bisogno di spiegarlo: i soldi...".
In questi ultimi anni, pur non potendo portare in studio una big band, Watson ha
comunque coltivato questo tipo di ensemble in vari modi: "Ho fatto molti
arrangiamenti per big band per le formazioni di diverse organizzazioni: la BBC
di Londra, alcune università statunitensi (Princeton, Indiana, University of
Miami...), orchestre formate dagli studenti di master classes e altri tipi di
corsi. Oltre alla preparazione dei materiali musicali, in ogni occasione ho
anche avuto la possibilità di dirigere quelle orchestre, o di esibirmi come
solista o entrambe le cose".
Watson sta quindi portando avanti i suoi progetti orchestrali appoggiandosi a
organizzazioni musicali delle più varie, il che vuol dire che, di volta in
volta, l'orchestra cambia. "L'unica possibilità che vedo, per poter mantenere
una big band stabile, è quella di dedicarmi all'insegnamento musicale: potrei
così mantenere una band composta dagli studenti. Comunque, per me, una big band
non dipende dalla necessaria presenza di particolari musicisti, di quelli che
diventano indispensabili per eseguire la mia musica. Dovrebbero esserci due o
tre strumentisti per ogni ruolo nell'orchestra: se qualcuno non può partecipare
a una seduta di registrazione, a un concerto o anche soltanto a una prova,
bisogna che ci sia assolutamente qualcun'altro. Basarsi solo su 17-18 musicisti
in numero significa esporsi troppo al rischio di avere un'orchestra non al
completo. Se manca qualcuno deve esserci un sostituto".
Veniamo quindi all'esperienza giapponese. La big band, pur comparendo ancora il
nome Taylor Made, è costituita questa volta da un gruppo di giovani jazzisti
nipponici attivi a Tokyo e dintorni: il nome che compare accanto a Taylor Made è
Tokyo Leaders Big Band.
"Con questi musicisti giapponesi mi sono trovato davvero
bene. Sono molto professionali: con loro ho potuto provare i pezzi in maniera
molto seria. Ormai sono finiti i tempi in cui si credeva nell'equazione jazz =
Stati Uniti. Comunque, ho provato a portare a questi giovani musicisti (il più
anziano di essi potrà avere avuto 35 anni) qualcosa che potesse fungere, per
loro, da 'tradizione'.
"Con loro la cosa più difficile è stata imparare a pronunciarne i nomi. Per il
resto sono musicisti molto disciplinati, incredibilmente seri: provano i brani
da soli, così che quando arrivano a provarli insieme sanno già dominare le loro
difficoltà tecniche e si deve solo creare l'interplay, senza che si debbano
ripassare le singole parti. Abbiamo tra l'altro avuto abbastanza tempo per le
prove (ne abbiamo fatte ben due!, non poche per dei jazzisti abituati a provare
un pezzo per una decina di minuti - se si arriva a trenta minuti allora vuol
dire che il pezzo è proprio difficile...), il che non è facile con una big band,
oggi. Il disco è la documentazione di tre serate di concerti, durante le quali
sono ritornato su alcuni brani che già erano inclusi nella precedente
registrazione Columbia con la big band (Ms B.C.
è presente sia sul CD Columbia
che su quello Audiophile Sound/Red Records; N.d.R.), presentando, in più,
materiali nuovi".
Suonare con l'orchestra vuol dunque dire, per Watson, tornare a lavorare anche
sulle sue vecchie composizioni. "Posso sentire quasi tutte le mie composizioni
eseguite da una big band, nella mia testa. I miei brani nascono, però, sempre
come pezzi di piccole dimensioni, destinati, cioé, a pochi esecutori. Poi, è
solo una questione di tempo: quello che in origine era un pezzo per un piccolo
ensemble si sviluppa, il suo organico si allarga; questo processo può durare per
anni. Non ho mai composto direttamente per una formazione orchestrale, a parte
in alcune occasioni del tutto eccezionali: il Festival di Glasgow, in Scozia,
per esempio, mi ha commissionato una suite, che è nata direttamente per la big
band. Arrangiare per un organico orchestrale, alla fine, mi dà più spazio per
esprimermi".
Quando si ha a che fare con formazioni jazzistiche dall'organico particolarmente
sviluppato, si finisce spesso per trovarsi in presenza di materiali organizzati
in forme estese; sembra che le big band richiedano un repertorio che oltrepassi
i limiti della forma canzone o della ballad o del brano swingato,
un'organizzazione dei brani che sfrutti al meglio le possibilità orchestrali.
Che si tratti di third stream o di jazz classico, i materiali finiscono spesso
per assumere l'aspetto di una suite. "Ho composto una suite,
Afroisms (The
Spoken Word), della quale ho inserito alcuni episodi (per esempio
Unfold) nel
live giapponese. Ho ascoltato con attenzione
Blood on the Field
di Wynton
Marsalis, una suite composta da Sam Rivers e, immancabilmente, le numerose suite
Duke Ellington. Ho ascoltato tutto ciò e l'ho fatto mio. Con la mia suite cerco
di parlare i vari slang della lingua inglese, quelli usati dagli anglofoni di
colore. Volevo che dalla suite si sentisse che sono un americano di colore, che
questa musica suonasse come un dialetto che facesse immediatamente riconoscere
l'origine di chi lo parla. È importante, qui, non confondere gli afro-americani
con i nero-americani. Io faccio riferimento a questi ultimi, per i quali le
radici africane sono ancora ovvie, ma le radici americane sono più importanti.
Credo che l'improvvisazione jazzistica debba molto allo stile di vita
statunitense, nel quale l'improvvisazione fa parte del modo di affrontare le
cose".
Un jazzista come Watson, impegnato nella creazione di un proprio repertorio,
basato ampiamente su composizioni originali, e nel portare avanti alcune
formazioni di particolare valore (il quintetto Horizon, innanzi tutto), non
tralascia di curare il proprio stile sassofonistico, ormai sviluppato a
sufficienza per poter essere preso a modello dai giovani praticanti del
contralto. Sebbene, in passato, in Watson si potesse sentire qualche influsso di
Jackie McLean, ora il sassofonista di Kansas City sembra proporre uno stile
ampiamente svincolato da rimandi diretti ad altri sassofonisti. Quando si tratta
di lasciare un documento del prorpio stile personale e del sound delle sue
formazioni, Watson pone le cose nel modo più semplice e chiaro: "Mi piace un
suono il più possibile naturale. Detesto le compressioni e anche il riverbero
eccessivo. Mi piace che si senta molta aria attorno alla batteria: questo
strumento deve poter respirare, non suonare troppo potente. Anche i bassi devono
mantenersi entro certi limiti, non devono essere caricati eccessivamente. Deve
sentirsi l'atmosfera della sala. Tra le mie registrazioni, mi piacciono le
sonorità ottenute in
Love Remains
(CD Red Reords 123212-2), in
Post Motown Bop
(Blue Note) e anche il sound di
Present Tense, realizzato per la Columbia. Per
suonare dal vivo, invece, trovo che i posti più adatti al jazz che eseguo io
siano i jazz club, quelli che offrono uno spazio sufficiente, sia sul palco che
in sala, per gli spettatori. Un pianoforte di buona qualità è cosa gradita.
Negli States direi il Birdland di New York; in Europa, Ronnie Scott's, a Londra.
In Italia, invece, mi è piaciuto suonare al Capolinea di Milano".
Questo articolo-intervista a Bobby Watson terminerebbe così se dovessi basarmi
sulle due conversazioni che con lui ho avuto agli inizi dello scorso novembre a
Ferrara, dalle quali provengono i suoi precedenti interventi. Ma, a volte, la
vita del critico musicale si fa avventurosa: neanche dieci giorni dopo questa
doppia intervista, mi sono trovato di nuovo in compagnia di Watson, questa volta
a Londra. Lui era ospite della BBC Radio per registrare dal vivo una esibizione
con la BBC Big Band e, sapendomi a Londra, mi ha invitato ad assistere alla
registrazione. Non trattandosi di un'incisione destinata a essere pubblicata, ma
semplicemente radiodiffusa in differita, i criteri tecnici osservati dallo staff
della radio inglese non saranno stati dei più meticolosi, ma è ugualmente
interessante avere un'idea di come oggi viene captato, in molti casi, il suono
di una grande orchestra jazz (quella della BBC contava diciotto elementi più due
solisti: oltre a Watson, c'era il trombettista e flicornista inglese Gerard
Presencer).
L'auditorium nel quale è stata effettuata la registrazione, il Radio Theatre
della BBC di Londra, è una sala rettangolare di medie dimensioni, capace di 400
posti circa. L'acustica è decisamente buona, tanto che il concerto è stato
realizzato in condizioni semi-acustiche, ovvero con l'amplificazione in sala
ridotta al minimo necessario, cioé al solo impianto di monitoraggio necessario
ai musicisti per sentirsi meglio durante l'esecuzione. L'unica parte della sala
capace di produrre riflessioni sonore che potrebbero inquinare il suono è l'area
sovrastante il palcoscenico, caratterizzata da un soffitto decisamente alto, a
cupola; la soluzione adottata, una tensostruttura realizzata con un telo di
materiale fonoassorbente semitrasparente, si è rivelata efficace per il
controllo del riverbero e accettabile a livello estetico: tale barriera lascia
'traspirare' il suono, bloccandone il ritorno, consentendo anche di intravvedere
l'effettiva forma dell'auditorium. In quanto alla microfonatura, mi sarebbe
servito un pallottoliere per tenere il conto dei pezzi utilizzati: quattro
microfoni per il suono complessivo dell'orchestra, sistemati a coppie alle due
estremità laterali sul fronte del palco, con angolo di apertura delle coppie di
150 gradi, in modo che un microfono puntasse verso il centro dell'orchestra e
l'altro verso i due solisti.
Tutto ciò mi ha lasciato perplesso: i tecnici della
BBC hanno considerato la ripresa del suono d'ambiente secondaria rispetto alla
ripresa sonora fornita dalla microfonatura autonoma di ogni singolo strumento.
Dunque un notevole numero di microfoni sul palco: più di venti, visto che alcuni
strumenti (il pianoforte, la batteria e il vibrafono) hanno richiesto più
microfoni. Vanno aggiuti al computo un microfono a testa per i due solisti
ospiti e, ciliegina finale, due microfoni al centro della sala puntati verso il
pubblico, per catturarne gli applausi.
Nel dopo-concerto, in un pub, in compagnia di tutta l'orchestra della BBC, ho
avuto modo di parlare con Watson in un'atmosfera tra il rilassato e l'euforico.
Ne è scaturito uno scambio di opinioni privo di professionali veli di
protezione. Ed è così che il sassofonista ha rivelato uno dei piccoli peccati
che ogni tanto si concede: "Quando salgo su un palco davanti a una band, mi
piace iniziare a soffiare nel sassofono a mio piacimento; in quel momento mi
concentro esclusivamente su quello che sto suonando, senza più avere una piena
cognizione di quello che gli altri stanno eseguendo alle mie spalle; li
costringo a venirmi dietro".
Vi assicuro che, seppur questo possa apparire un
vezzo da primadonna, funziona: la band della BBC, rispetto ai brani eseguiti
senza un solista davanti a essa, ha inserito una marcia in più alla presenza di
Watson. Egli, dopo il primo brano, si è rivolto al pubblico dicendo: "Grazie.
Grazie. Il brano che abbiamo appena eseguito era... Era... Cos'era?". Vi
assicuro che, pur non sapendo cos'avesse suonato, lui e l'orchestra si erano
trovati più che in perfetto accordo e che, nel caso di Watson (che del resto non
è l'unico nel jazz), l'abbandonarsi col massimo della passione e
dell'autosoddisfazione all'istantaneità esecutiva, quasi inconsapevole di quello
che sta succedeno, porta a risultati notevoli.
Nelle esibizioni dal vivo (ciò si nota anche in quelle documentate su disco -
per esempio nel già citato
Live
col 29th Street Saxophone Quartet e nei due
volumi del
Live Session
col quintetto di Steve Nelson:
Live Session One
su CD
Red Records 123231-2;
Live Session Two
su CD Red Records 123235-2), Watson e i
suoi gruppi propongono un suono più aggressivo e linee melodiche più taglienti
rispetto alle incisioni effettuate in studio.
"Questo è un problema che riguarda
le registrazioni in studio in generale. In studio, l'improvvisazione non è mai
completamente sincera, né spontanea, mentre, a livello strumentale, il suono
tende a essere maggiormente controllato, con contorni più puliti; si perde
quell'espressiva 'sporcizia' che sta attorno a certe note e che è il frutto
dell'energia profusa in concerto. Questo riguarda il jazz in genere: anch'io,
anche se adoro ascoltare le loro registrazioni, preferisco di gran lunga
ascoltare i miei jazzisti preferiti (Groover Washington, per esempio) in
situazioni live".
Nei pochi giorni che hanno separato i miei primi due incontri con Watson da
quello presso la BBC, il sassofonista ha registrato, a Birmingham, una scelta di
brani ellingtoniani. Volete sapere con chi? Con la locale orchestra sinfonica,
l'eccellente City of Birmingham Symphony Orchestra, diretta da Sir Simon Rattle,
da poco nominato direttore stabile dei Berliner Philharmoniker. Se l'abbinamento
vi sembra poco jazzistico, provate ad ascoltare la recente incisione di
Rattle
per la EMI del bernsteiniano
Wonderful Town
e ditemi se ciò che in questo
musical broadwayiano Sir Simon fa venir fuori dall'orchestra di Birmingham non
sembra l'esibizione di una furente big band.
Daniele Cecchini
Watson & Big Band: un
binomio riuscito
Tutti sanno che Bobby
Watson è un musicista eclettico, un solista a suo agio nei contesti più diversi,
dal funky, al bop, al rhythm'n'blues. Ma con questo disco conferma, qualora se
ne sentisse necessità, di essere anche un eccellente arrangiatore. Del
resto esiste un'ampia letteratura in proposito: Watson è stato direttore
musicale del gruppo di Art Blakey ed ha anche un proprio quartetto di
saxofoni, ma non è certo conosciuto al grande pubblico come leader di big band.
Ed ecco che arriva questo "Live at Someday in Tokyo" a colmare la lacuna.
Alla guida di un'affiatata big band di 16 elementi composta da alcuni dei più
prestigiosi bandleaders giapponesi (non a caso il nome della formazione è "Tokyo
leaders big band") assemblata dal producer Shigenobu Mori, Watson ha
arrangiato 6 composizioni originali, con le quali dimostra un'assoluta
padronanza del mezzo espressivo, grande abilità nel variare le atmosfere e le
dinamiche, oltre a mettere a suo agio i vari solisti in contesti loro congeniali
(ottimi il sax tenore, la tromba e il trombone), insomma tutte le doti più
importanti di un direttore di big band. Peraltro Watson rifugge da molti
"cliche'" tradizionali, e riesce quindi a ritagliarsi uno spazio di originalità
nell'utilizzo della big band, senza perdere di vista i modelli consolidati e la
storia del jazz. Si parte con "Dual
conversation", un brano
basato sulle variazioni armoniche sopra a un pedale, ricco di atmosfera e
variazioni dinamiche. Nel secondo brano, "Ms.
BC" Watson si ritaglia
uno spazio solistico suonando da par suo, ben assecondato da una ritmica precisa
e swingante. Ottimi anche gli interventi del sax tenore e della tromba. Ma è
nella ballad "Long way
home" che Watson mette
in mostra capacità notevolissime di orchestrazione, con atmosfere ricercate e
raffinate, grande padronanza nella giustapposizione delle sezioni, anche nei
passaggi più intricati armonicamente. Si conclude con "Unfold"
(che contiene un divertente inciso "salsa") e con il trascinante "In
case you missed it".
Senza dubbio un bel disco, che farà piacere ai cultori della big band senza del
resto scontentare gli amanti del Watson "solista".
Gabriele Comeglio
- Sassofonista,
Arrangiatore, Direttore d'Orchestra |
Japanese musicians. It's nice to report that not only was this a good idea, but
so was the outcome. This is an exciting session that will keep your toe tapping
and heart thumping throughout the entire 70 minutes of music. All but one of the
compositions are by Bobby Watson - - "Ms. B.C." was written by Pamela Watson - -
some of which he wrote during his tour with Art Blakey's Jazz Messengers.
Appreciating the dynamics of the group is vital to appreciating what they are
doing. The mood swings in some of the tunes are breathtaking. Listen to "Long
Way Home" where Watson's dissonant fast paced alto playing seques into a lovely
ballad backed by the soulful sounds of the big band. One wonders why this song
isn't in the repertoire of more of today's modern big bands. "In Case You Missed
It" is played with an intensive high voltage energy that recalls Count Basie's
high-flying outfit of the early 1970's. There's some very good Carl Fontana like
trombone solo by Masahiko Kitahara and an upper atmosphere trumpet coda to end
the tune. The other soloists on this set are similarly outstanding like Kose
Kikuchi's swinging flute on "Karita".
Not only is the ensemble and section playing and solo work by the members of the
band a strong indication of just how far Japanese jazz musicians have advanced,
but the fact that they can sustain the listener interest in a piece of music
that runs for more than 15 minutes reveals just how versatile and imaginative
their playing has become. Their prowess also allows them to smashingly respond
to Bobby Watson's demanding arrangements and alto.
This set is modern big band music at its best and is highly recommended!
Dave Nathan
- All About Jazz |
Alto Saxophonist Bobby Watson is showing up everywhere on RED these days. The
last number of months have witnessed the release of Quiet As It's Kept (RED
123284) and the Jazz Tribe's The Next Step (RED 123285). Presently, Watson pops
up with a very fine Japanese big band performing a sextet of Watson originals
(excepting his wife's "Ms. B.C.") live at the Tokyo "Someday" Jazz Club.
Departing from the Latin bent of his recent recordings, Watson delivers inspired
charts and solos on this disc. His charts are rife with writing for the low
brass and reeds. The stunning complexity of "Dual Conversation" reminds this
listener of the great Oliver Nelson's charts. "Karita" (one of Watson's
contributions to the last Jazz Tribe disc) is given a 17-minute workout with
exciting trombone and alto solos. "Long Way Home" is an alto sprint resolving
into a progressive ballad exploration. The disc highlight is its penultimate
piece, "Unfold". "Unfold" begins with a complex low brass and reed head, flowing
into a little Latin motif before becoming a solo vehicle for the trombone,
trumpet, and alto saxophone. The climax of the piece (and "In Case You Missed
It") is a break where all of the horns are playing a nuclear Dixieland orgy of
staccato-ed arpeggios and slurs. The effect is of a celebrated chaos.
To my mind, Bobby Watson is the finest alto saxophone player performing today.
His music is in the best form of his career and the keen ear of Sergio Veschi
is
capably capturing it for RED Records. I hope that this long and successful
collaboration between Watson and RED continues to produce music of the quality
presented on this disc.
C. Michael Bailey
- All About Jazz |
I believe it was at the Monterey Jazz Festival some years ago, when a Japanese
Big Band exploded on the scene. A comment was posted somewhere "My God they are
doing to our music what they did to our cars". The impact was great, around that
time some wonderful Japanese big bands assaulted our conciousness on imported,
beautifully produced and expensive LPs. Then it went quiet. Well, the wound has
been opened up by the TOKYO LEADERS BIG BAND with guest alto sax BOBBY WATSON.
In the first instance all the members of the band are band-leaders and new to
me.They are playing live at a club called SOMEDAY in Tokyo.
To say that this band is assertive is an understatement. Right from the downbeat
your attention is grabbed by the explosive nature of the section work. Watson's
arrangements are demanding for the musicians but irresistible for the listener.
Dual Conversation, the first piece sets the pattern. It is very difficult to
work out who is doing what as no solo credits are given. Watson's pyrotechnics
leave you in no doubt, the rest can be placed safely under the heading of
exceptional.. On unfold there is a dual to the death by several members of the
trumpet section and one, maybe several outstanding trombonists. Actually it is
unfair to discriminate. I will, however mention a seemingly young drummer who
has the chops of a hardened veteran.
J.R.Killoch
- INTERNET BIG BAND SITE |
The concept was to "recreate" Bobby Watson's American jazz conglomeration, the
Tailor Made Big Band of the early 1990s, with a Japanese version. Recorded live
at the Japanese club Someday with the Tokyo Leader's Big Band, the six
compositions and arrangements by Watson are alive with vibrant explosion. The
alto saxophonist is at the top of his form, and the band sounds totally
inspired. Although it is impossible to know who is soloing (other than Watson),
there are particularly strong efforts from an unidentified trumpeter and
trombonist. The band swings hard, and the compositions are tightly arranged,
permitting the soloists of the band to strut their stuff. There is unmitigated
electricity where Watson interjects sections of collective improvisation. This
is the sort of mainstream jazz date that encourages spontaneity and challenge,
while never reverting to worn cliché. It is a model for big jazz bands at the
turn of the century, and a fine introduction to the work of Watson, who has
often been documented on the Red Records label from Italy.
Steven Loewy
- AMG |
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Data pubblicazione: 23/11/2001
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