Nizza Jazz festival 2004 Nizza, 21 - 28 luglio 2004
di Cristina Spano
Bienvenus Madames et Monsieurs à le Nizza Jazz Festival, Viviane Sicnasi, signora del festival, apre alla musica e al pubblico le porte dei Jardins de Cimiez. Edizione speciale, questa, che festeggia i trenta anni di attività. "Questo festival è soprattutto il vostro" dice la bionda padrona di casa. "L'ho voluto conviviale, colorato, gaio, come una mela da mordere. Ci ho messo il mio cuore, la mia passione per il jazz, le musiche di festa, senza altra pretesa che quella di divertirvi." Accompagnati dall'odore del rosmarino, della lavanda, degli ulivi secolari dell'arena gallo-romana di Cimiez, tutta la musica si da appuntamento in questo angolo di Mediterraneo.
50.000
spettatori, 8
giorni di musica, 75
concerti, 12
generi musicali, più di 500
musicisti per oltre 120
ore di spettacolo
ininterrotto, che si alterna e si affianca sui tre diversi palchi: Jardins,
Matisse e Arenes.
E se tutta la musica di questo secolo è una colonia africana, questo festival non smette di ricordarcelo. Sotto questo sipario l'Africa c'era proprio tutta, quella di Bamako, quella di Nairobi, di Lagos, Soweto e Kinshasa, ma anche quella dell'Havana e di San Juan di Portorico, quella di Kingston, di Rio, quella di Parigi, di New York, di Los Angeles, Chicago e New Orleans. Ma c'era anche la Spagna, l'Italia, la Scandinavia, l'Irlanda, l'Inghilterra. Veramente un bel festival, sotto ogni aspetto: la programmazione, l'atmosfera, la location, il pubblico, l'organizzazione, i servizi e i prezzi al pubblico. Tanti musicisti, per un panorama musicale completo, ricco, di qualità, un agio e una rilassatezza sconosciute, per esempio, ai tour de force affollati e afosi del corso principale di Perugia. I giardini bellissimi, l'arena suggestiva, confortevole, il pubblico vario, disciplinato, anche nei concerti più hot, ma caloroso, partecipativo, non come i pubblici impettiti del Morlacchi o dell'Auditorium. Tanti giovani, di tutti i tipi, colorati, intellettuali e non, un
metissage di razze e di lingue. Unici disertori gli italiani. Tante famiglie, anziani, bambini, tante mamme con enormi pancioni, tutti seduti ai tavoli, divisi tra il buffèt dell'area vip e i teli sui prati all'ombra degli ulivi, in un grande picnic a suon di musica, a mangiare, chiacchierare tra un concerto e l'altro, mentre si attende il proprio artista preferito. Una grande sagra di paese all'insegna dello charme. Da mangiare per tutti i gusti. Si mescolavano gli odori e i vapori di panini, quebab, pizze, dolci spumeggianti, carne, e tanta birra a poco prezzo. Una puntualità che non fa una piega. I primi concerti cominciavano alle 19:00, e alle 19:05 si potevano già ascoltare le prime note. E a mezzanotte tutti via sulle navette jazz, piccoli pulmini gratuiti messi a disposizione dal festival che riportano al centro di Nizza, il lungomare. E su tutti a cantare, ballare, a scambiarsi numeri e pareri, e a darsi appuntamento sulle terrazze dei lussuosi hotel nizzardi aperte al pubblico per le infuocate jam sessions che i musicisti offrivano prima di ritirarsi esausti e alticci nelle proprie camere. Otto concerti in una sera, e che concerti! Costano al pubblico 36€, e l'abbonamento per otto giorni 163€, quando qui in Italia ci si è ormai abituati a pagarne 30€ per due ore striminzite di performance. Ma andiamo con ordine, perché tutto va raccontato, e non per dovere di cronaca, ma perché ogni musicista, ogni colore di questo festival, nella sua eterogeneità, concorre ad un puzzle perfetto.
Il
21
porta il titolo "So Bop, So Pop, So Choc", e ad aprire le scene è il basso e la voce di Meshell Ndegeocello, con il suo nu-soul in cui si danno appuntamento anche reggae e r'n'b, con un pizzico di psichedelia. Nata a Berlino, originaria del Kenia e ora residente a New York,
infinite sono le sue collaborazioni come bassista, ultima quella con Basement Jaxxx, e poi Prince, Steve Coleman, Lenny Kravitz, Arrested Development, Gorge Clinton, Herbie Hancock, Marcus Miller. Sul palco anche una kalimba e i piatti di dj
Jahi Sundance.
Un altro basso, su un altro palco, è quello di Jean-Marc Jafet, col suo Nice Trio.
Altro artista da ricordare è il batterista francese Andrè DD Ceccarelli con il suo
settetto.
Si cambia registro, si cambia palco, ed è la volta di Patti Smith, e non c'è bisogno di aggiungere altro. Lei canta, suona la chitarra e il clarinetto. La strada dal suo debutto in una New York punk rock è lunga fino a Nizza.
Si esibisce poi il pianista scandinavo electro-jazz Bugge Wesseltoft, accompagnato da un dj. Atmosfere oniriche, vocalizzi da mille e una notte, cadenzati dai ritmi sintetici della batteria elettronica.
Godutasi il primo successo sulla scena canadese, ora dispiega il suo canto sulle sponde d'Europa la prima donna della rassegna, è la diva jazz-pop Molly Johnson. Comincia la sua carriera come cantante rock, ma una serie di collaborazioni (K.D. Lang, Stephane Grappelli, Rush's Alex Rifeson, Tom Cochrane e Gorbie Jhonson) la portano sul versante jazz. Graffiante la sua versione di Summer Time,
tutta voce e contrabbasso, cantata ruggendo maliziosamente, struggente ed energica la sua Melody, tutti brani dal suo album Another Day, così I Must Have Left My Heart, tutti pezzi da ascoltare a lume di candela, che hanno trasformato in un club fumoso il prato dell'Arenes de Cimiez.
Poi è il turno del metissage elettrico del gruppo francese degli Wise. Un trio, piano, tromba e sintetizzatore, a metà strada tra l'acid jazz, il trip hop e la club music, con incursioni nel drum'n'base, semplicemente nu-jazz. Sono figli degli ultimi anni settanta per le melodie, e di questo decennio ber il beat, ed è quasi milesiano il loro brano Insights, e molto in effetti deve all'ultimo Davis questo gruppo. Trabocca di funk Le Troisieme Oeil, languidissima Qui Des Nous Eux.
Canta poi il soulman tedesco di origine ruandese Corneille. Questo giovane cantautore, un po' dandy, un po' sexy, dopo aver spopolato in Canada,
ha conquistato anche il pubblico francese. Innamorato di Marvin Gaye, con uno stile che somiglia lievemente a quello di un Craig David, rappresenta la nuova faccia del r'n'b europeo, e si distingue per dei testi ben pensati, come quello della sua bella Parce Qu'On Vient De Loin.
Il giorno a seguire il
22, porta il titolo "L'Archange Est Dans La Baie". Il primo palco a sudare ospita i genovesi Meganoidi e il loro ska-core. Un altro tra i primi gruppi ad esibirsi è il quartetto degli La Jarri, col
loro franco-rock-alternativo.
Si torna in Africa, con il trombettista franco-guineano
Pascal Ohsè, più conosciuto come Soel, divenuto noto soprattutto per aver trovato il suo posto d'onore alla corte del re dell'elettro Ludovic Navarre, alias St. Germain. L'artista presenta il suo album Memento, in cui alloggiano dub, r'n'b, funk ed elettro, e le cui composizioni ricordano il groove degli anni settanta e le colonne sonore dei films della blaxploitation.
Un progetto di nome Translate vede poi il contrabbassista Michel
Benita, discreto ed efficace, e con in tasca tante passate collaborazioni con numerosi musicisti italiani quali Fresu, Pierannunzi e Marcotulli, affiancato dalla videasta Judith Darmont, che rimodella e plasma sul palco le sue immagini come i musicisti fanno con le note, e dal trombettista Erik Truffaz, che contrappunta con i suoi arabeschi di fiato le note del contrabbasso, il tutto sorretto da delle basi drum'n'base, elettronica pura, che seguono la scia delle vorticose e ipnotiche immagini.
Più tardi è il turno del polistrumentista, a suo agio con voce, chitarra, basso e percussioni, Dabi Toure, fondatore dei Toure-Toure. Riescono ad essere delicati e comunque a far venire voglia di ballare i suoi brani, come Iris, Mi Wawa, Yaw, romanticissima, o Dendecuba,
con una chitarra poderosa. Originario della Mauritania e figlio di Seta Toure, si esibisce solo in questo suo
concerto, presentando il disco Diam, prodotto da Peter Gabriel.
La signora della serata invece è Rokia Traore. Giovane maliana, fonde le melodie tradizionali del suo paese, le melodie bamanam, con il raga, associa la sua voce al timbro del balafon con l'asprezza della chiatarra n'goni. La sua musica, seppur contemporanea, mantiene una forte caratterizzazione tradizionale. Ma l'evento della serata è l'ex Genesis Peter Gabriel,
faro della rivoluzione prog-rock degli anni settanta, mecenate della world music, gioca in casa sotto gli ulivi di Cimiez, cantando addobbato con un paltò tempestato di lampadine.
Notte al femminile il
23, "Pretty Woman" è la serata. La prima dama a cominciare è Laetitia Sheriff, che con la sua voce acida, la sua chitarra, il suo basso e le sue tastiere, ricorda le sonorità di PJ Harvey, soprattutto in brani come Binds, più Janis Joplin in brani come Baby Man, e tanto Kim Gordon in Codification.
Quasi in contemporanea su un altro palco, c'è l'ivoriana Manou Gallo, polistrumentista straordinaria, cominciò la sua carriera stupendo il suo villaggio per aver suonato in pubblico i tamburi parlanti, interdetti alle donne, e ha continuato a stupirci scoprendosi portentosa su molti strumenti, il basso su tutti, e a conquistarci con la sua voce fortissima. Ex bassista del gruppo Zap Mama, si propone da sola ora col suo nuovo album Dida,
e proprio nel brano che da il nome all'album il ricordo di Zap Mama è più vivo, mentre in Tout Brule, Manou sfodera un basso potentissimo, bellissimo l'arpeggio che accompagna Maisha.
Cantano poi le Daughters Of Soul. In un progetto pensato esclusivamente per il Nizza Jazz Festival, un gruppo di nere voci femminili, accompagnate da strumenti e coro, propone un soul del XXI secolo. Sono alcune figlie di voci illustri come Lalah Hathaaway,
Lisa Simone, Milini Kahn, e poi Nona Hendryx, Joyce Kennedy e Sandra S.Victor. A fine concerto tutto il pubblico è in piedi sulle sedie dell'arena a battere le mani, un'ovazione.
Una donna sola, invece, ha il compito di rappresentare la Spagna e la rivoluzione del suo neo-flamenco, il suo nome è Anna Salazar. Chiazza di porpora sul palco, la bella di Cadiz interpreta in chiave Andalusa il repertorio della Piaf, con una originalità da pochi sino ad ora eguagliata. Lo stravolgimento è impressionante, la lingua, il canto. La chanson francaise si trasfigura nella forza del flamenco. I brani sono quasi irriconoscibili, come La Vida Es Rosa, se non nei ritornelli più battuti dalle orecchie del pubblico. Fortissima è la sua Historia De Amor, ormai solo reminiscenza dell'originale La Belle Histoire D'Amour.
A rappresentare invece un altro paese, il Canada, e la giovane Leslie Feist, che accenna una voce da lolita, dolce in Gatekeeper, maliziosamente
ironica in Mushaboom, quasi una Portishead in versione soul nel brano che da il titolo al suo album Let It Die, e riesce ad essere, ma senza mai perdere il proprio stile, anche dance-retrò in Inside And Out.
Ma eccola la regina della serata, con la sua corte latina, è
Dee Dee Bridgewater, che la Francia ha accolta e coccolata in tutti questi anni, interpreta pezzi scolpiti nel cuore sudamericano e classici del repertorio jazz con saudade e con clave. Danza, parla col pubblico, e insieme alla sua voce lascia brillare il sassofono pacificato del portoricano David Sanchez.
Chiude la serata la statuaria e imponente Jessey Norman, che interpreta alla sua maniera, quella della grandissima cantante lirica che è, il repertorio di Ellington e Gershwin.
Siamo al quarto giorno, il
24, "Don't Worry Be Funky", secondo gli organizzatori. Uno dei giorni più ricchi per la quantità di giganti e giovani leoni riuniti insieme sullo stesso fazzoletto di terra.
Partito da Stoccolma col suo rosso trombone, Nils Landgren è oggi uno dei maggiori esponenti e portabandiera del funk europeo, alla testa della sua Funk Unity, ed è lui ad aprire i giochi a Nizza questa
notte.
Nota dolente del festival, Horace Andy. Una delle voci più belle dell'isola di Jamaica già dai tempi delle sue prime incisioni del 1967, fino al 1990, quando collabora col gruppo di Bristol, Massive Attack, scoraggiato dalla pioggia e feritosi ad una gamba, annulla il suo concerto, e l'arena de Cimiez si fa cadere addosso una pioggia di malincuore.
Ma il tempo è clemente poco più tardi, e lo spettacolo continua per tutti gli altri artisti. Segue la lista dei grandi, ed è il turno del colosso del vibrafono degli anni sessanta, Roy Ayers, profeta dell'acid jazz, ha tracciato con anticipo quasi anacronistico la strada del moderno r'n'b e dell' hip hop.
Quando ancora batte un timido sole tra le staccionate, comincia il suo concerto il trombettista Roy Hargrove, con la sua RH Factor, una fucina di hard bop-funk new style, romantico, arrabbiato, impegnato. Meravigliosa è la voce della sua cantante Rene Neufville, soprattutto nel pezzo che è diventato una bandiera durante i concerti, e che anche a Perugia ricevette i maggiori consensi, Forget Regret. I soli di tromba sono smaglianti, perfetti, imprevedibili, fino alla fine, così in tutti i brani di questo fondamentale album del 2003, Hard Groove.
Arriva il tempo dell'esibizione di Ed Motta, compositore brasiliano, già storico della musica popolare, collezionista di vinili, giornalista musicale e dj. Mosse i primi passi nel gruppo hard-rock Kabbalah, continuò il suo percorso musicale poi da solo, forgiando un soul-funk dalle forti connotazioni brasiliane,
che gli è valso il disco d'oro nel 1977. Difficile è descrivere la sua musica, forse più che per qualsiasi altro artista della rassegna, c'è tra le righe, tra le note, tutto ciò che questo musicista ha metabolizzato nella sua instancabile ricerca e tra le viscere della sua terra.
Arrivano i due concerti più caldi del festival. Primo Marcus Miller, suona il basso, il sax, il clarinetto basso, suona il pubblico, e canta. Le sue corde schiaffeggiate fanno muovere il collo, e tutta la platea chiude gli occhi. Accompagnato dal suo inseparabile piccolo cappello nero, il fu giovane protetto di Davis, quello di Tutu, fondendo free, funk e rock, ha dato una delle emozioni più forti di questi intensi otto giorni di musica, uno dei pochi concerti a cui l'integerrima organizzazione del festival ha concesso un bis.
E per finire, poi, Les Jardens de Cimiez si trasformano in una pista da ballo assalita dalla febbre del sabato sera. Il pubblico in visibilio, arrampicato sugli ulivi, urla e striscioni, e tutto questo è per gli Chic. Già l'anno passato questo tornado aveva travolto Cimiez. Ripropongono i classici immortali del loro repertorio, Le Freak, Dance Dance Dance, Good Times, col suo proto-rap. Nile Rodgers, accompagnato da due cantanti,
Sylver e Jessica, divine per bravura, carisma e bellezza, organizza una festa sul palco e tra la folla, e il concerto è immancabilmente dedicato a Bernard Edwards. Invita poi tutti i musicisti della giornata sul palco, gli stessi che durante il concerto era possibile scorgere confondersi tra la folla a cantare e ballare, tra i flash e i vapori delle mille cucine degli stands.
Giro di boa per il festival, arriviamo al
25, "Smart & Trendy" la serata per il pubblico Nizzardo, serata affatto black, meno soul-funk delle altre, non fosse per l'enorme e grooving presenza di Angie Stone. Questo enorme diamante nero si fa attendere dal suo pubblico, che quasi dispera di non sentirla più: un cambio di programma, inaspettato vista la costante precisione del timing del festival, problemi di aerei e bagagli.
Ma alla fine eccola, e tutti, in realtà, sono felici di poter godere di questo spettacolo come ultimo show. Imponente, accompagnata da due straordinarie vocalist e da un rapper, esegue pezzi del nuovo album e consolidati successi, raccontando la storia di ogni brano, ed eseguendo solo quelli che lei ama di più. Cresciuta con l'hip hop, questa giovane signora del canto merita l'appellativo di imperatrice del nu-soul.
Il resto della serata è stato elettro e rock. Prima i The Servant,
che uniscono un originale e intenso senso melodico pop-rock ad un gusto musicale
charmant e trendy, che ricorda il miglior brit-pop, con delle venature di Oasis
e Bowie.
Poi è il tempo dell' house-elettro-sax di Jerome Badini, che stende le sue improvvisazioni sullo strumento come un dj che mixa i propri dischi, trasformando sottili melodie in motivi ripetuti fino alla trance, quella che porta alla danza.
Sempre all'insegna dell'elettronica i General Electric di Herve "RV" Salters, alla voce e alle tastiere, che reinventano con stile e ironia i grandi successi jazz e soul. Muniti di un basso, una chitarra, una batteria e un MPC, le loro basi sono molto vicine all'hip hop, ma da qui partono per muoversi verso un'altra direzione, più elettronica, più club-culture.
È poi il turno del sofisticatissimo e malinconico trio inglese degli Archive, con la loro nuova psichedelia, fondendo rock e trip-hop, con un po' di nostalgia per i Pink Floyd.
Poi sul palco si presenta un ensemble di otto persone, è Divin Comedy, nient'altro se non il volto pubblico dell'irlandese Neil Hannon. È questo il progetto che, forse, insieme a pochi altri, stabilisce meno connessioni con il resto della rassegna. Sonorità che ricordano a tratti Lou Reed, a tratti Nick Kave, ma con una linea di encefalogramma un po' più piatta.
Suonano poi le giovani energie degli Elista, gruppo che tesse la sue dolci melodie su riffs aggressivi, su un tappeto di strofe poetiche e profonde.
E poi l'unica altra donna della serata, Rickie Lee Jones, la sua voce e la sua chitarra, arrivano da Chicago, e sono le figlie spirituali di Jony Mitchell e Woody Guthrie. Cantautrice con la chitarra in spalle, racconta le sue storie stringendo forte il suo strumento, con molto country nelle orecchie, e gli anni sessanta nel cuore.
Grandi voci, grandi cantautori accompagnati dalla fedele sorella a sei corde il
26
per la serata "Bad Boys", a partire dal grande Popa Chubby, vero bluesman dalla pelle bianca e tatuata. Nato nel Bronx, comincia la sua carriera con l'album How'd A White Can Play The Blues, e la lezione è chiara per tutti. Si presenta in quartetto al suo pubblico con il suo nuovo The Bad, The Good, And The Chubby.
Altra voce, ma questa volta fragile e cristallina, quella del lord del canto David Linx. Conosciuto al pubblico italiano soprattutto per aver prestato la sua ugola all'ambizioso progetto di Paolo Fresu nel suo rifacimento di Porgy And Bess, questo elegante cantante reinterpreta la canzone francese in chiave jazz, nelle sue acrobazie vocali è accompagnato, in questo quartetto d'eccellenza, dal suo fedele pianista e compositore Diederik Wissels.
Un menestrello poi, è Lemmy Constantine, che ci porta nella sua Manouche Land, in cui ci si esprime con versi umoristici accompagnati da due chitarre che si rifanno alla lezione di Django Reinhardt, più accordeon, contrabbasso e violoncello, così nella sua
The Polo Land, allegra e piena di swing. Per chi non l'avesse mai udito, un gioco di fantasia per fondere il nostro Paolo Conte, con il francese Gorge Brassens.
Altro bardo, testimonianza di quanto la tradizione cantautorale, seppur rivestita di moderni arrangiamenti, sia ancora molto forte in Francia, è Michel Art Mengo, che canta e suona la chitarra e il piano, accompagnato anche da un accordeon e da un sintetizzatore, e dimostra, soprattutto con il suo ultimo album La Vie De Chateau, che la malinconia non è necessariamente anche tristezza, come fa in Je Passerai La Main.
L'Italia è rappresentata anche da un giovane gruppo di Parma nato nel 1996, gli Hidea. Avevano già calcato queste scene l'anno precedente, esibendosi prima di Bennato e Jamiroquai, sono il tipico gruppo rock italiano ultima generazione, che ammicca sia al rock che al dancefloor.
Segue un duo d'eccezione, il chitarrista enfante prodige JC Mencaglia, e il pianista, storico accompagnatore di Dee Dee Bridgewater, Thierry Eliez, dedicano il loro bel concerto alla memoria di Sacha Distel.
Si torna in Africa quindi, con il nigeriano Keziah Jones, il quale, abbandonate le scene della metropolitana parigina, quattro album al suo attivo, si presenta ora al pubblico pagante. Musicista e poeta, con un afro-beat new generation fortemente venato di r'n'b,
questo Orfeo Nero, come titola il suo ultimo album, mescola il tutto in chiave romantic-funk, come in Familiarize. Ci mette anche il rock delle Hendrixiane Acoustic Jam, così suona Neptune, e come un Cody Chesnutt delle sponde d'Africa esegue il suo brano Black Orpheus.
Ancora Africa: è il camerunese Richard Bona, bassista e cantante che vanta collaborazioni con artisti quali Joe Zawinul, Regina Carter e Randy Bracker, e che rappresenta una tra le migliori espressioni della musica contemporanea africana.
Si vola poi fino alla Jamaica, per ascoltare Jimmy Cliff, un pezzo di storia della musica di Kingstone. Ambasciatore del ritmo in levare insieme a Marley e Tosh, ha attraversato, con un'innata propensione al maistream, tutte le fasi della storia musicale dell'isola: ska, rock steady, reggae, digital. La sua voce ha firmato mitici capolavori come Vietnam e Many Rivers To Cross.
Il
27
è la serata del blues infuocato, the "Devil's Music". Compare un altro pezzo d'Italia, il bluesman all'amatriciana Zucchero Fornaciari.
Arriva poi però il turno di un purosangue, il cantante, chitarrista e organista Luky Peterson. Enfante prodige della musica, registrò il suo primo disco a cinque anni, e apprese la sua arte da Little Milton e Bobby Bland.
Sempre a proposito di genetica del blues, ecco lo show del chitarrista di San Francisco Joe Luis Walker, a true road veteran, classe 1949, il bluesman che più di tutti, forse, subì l'influenza del gospel. Qui a Nizza è affiancato dal pianista Kenny "Blues Boss" Wayne che si autodefinisce an internationally and traditionally blues and bolgie-woogie piano player.
Due signore poi, la prima, the great lady of soul, Bettye Lavette, contemporanea di Aretha Franklin e di Otis Redding, ha attraversato in maniera inossidabile l'era del soul. La sua voce, limpida, ma non cristallina, calda ma non roca, qui su un palco senza fiati, non ne fa sentire la mancanza.
L'altra donna, Ilene Barnes, chitarrista americana trasferitasi a Parigi, figlia spirituale di Nina Simone e di Joan Armatrading, porta con se un po' dello spirito di Ben Harper. Si accompagna con la chitarra, e la sua musica tradisce il sangue africano, indiano e irlandese che l'ha partorita. La sua voce ha un timbro particolarissimo, quasi maschile, che ricorda quella di Tracy Chapman.
Anche il bluesman maliano Boubacar Traore, aka Kar Kar, canta accompagnato dagli arpeggi della sua chitarra, ispirata alla tradizione kassonkè, ed è fiancheggiato dalla voce e dalla chitarra di Habib Koite, che di questo progetto ha la direzione artistica. Musica arriva anche da strumenti quali balafon, violoncello, armonica, djembè, calebasse, kamale n'goni. Suona usando la scala pentatonica della sua regione, Kayes, e si rintracciano nella sua musica le vere e primordiali tracce del blues.
Altro maliano è il tastierista Cheik Tediane Seck, conosciuto al pubblico per le sue collaborazioni con Salif Keita, Joe Zawinul, Graham Haynes, Toure Kunda, Mori Kante, ma soprattutto per i suoi arrangiamenti in Sarala di Hank Jones. Presenta quest'anno il suo primo album solo Mandingroove, rilettura evolutiva della musica mandinga. Suona Siya Woloma, un tema costruito a partire dai balafon sènoufo,
o il suo classico da ormai più di trenta anni Watjoro. Valga per tutti Le Blues Des Oubliès, che ha un arrangiamento hip hop, contempla un solo blues, dei vocalizzi orientaleggianti, canti sufi e trame indianeggianti: questo è Tediane Seck.
Ultima volta per il Nizza Jazz Festival del 2004, e a chiudere la serata "What a Wanderfull World" un ospite d'eccezione: Bryan Ferry, questo cantante inglese,
il più cool dello shoow-bisness, all'indomani di una tournèe mondiale insieme ai suoi storici Roxy Music, si presenta con un nuovo gruppo di dodici elementi che conta anche due ballerine.
Altri grandi ospiti sono i Ladysmith Black Mambazo, il coro di dieci elementi di Soweto. La grande famiglia, famosa ai più per la collaborazione con Paul Simon, ha portato in Costa Azzurra le armonie tradizionali del clan Shabalala. Sono gli ambasciatori della musica sudafricana nel mondo, soprattutto dopo aver cantato, a Oslo nel 1993, alla consegna a Nelson Mandela del premio nobel per la pace. Un modo per festeggiare a Nizza un altro importante anniversario, quello dei dieci anni dall'abolizione dell'apartheid in Sud Africa.
Un altro coro sudafricano, e un altro concerto annullato. I Soweto Gospel Choir, 26 voci, sotto la direzione di David Mulovhedzi, dalle migliori chiese di Soweto,
annullano la loro tournèe europea, e noi dovremo farne a meno. Altro palco: bassista e cantante dalla voce profonda, al confine tra musica africana e pop, Etienne M'Bappe fonde ritmi camerunesi quali makossa, bolobo, sekèlè, con il free-jazz, il rock, e le melodie arabo-andaluse. Reduce dalla collaborazione all'ultimo disco di Zawinul, questo bassista ha uno stile potente, vicino a quello di Miller.
Un altro figlio d'Africa e un figlio d'arte per eccellenza, Femi Kuti, col suo sax e il suo ensemble Positive Force continua la tradizione pura dell'afro-beat di Fela, scomparso nel 1997. In prima fila tre coriste e ballerine dalla sensualità guerriera, di giallo e di verde vestite, Femi a torso nudo coperto di una sgargiante calzamaglia gialla e rossa. È uno dei primi concerti, e il sole rende ancora omaggio a questa apoteosi multicolore, ma lo stesso sole è testimone dell'iniziale malumore dell'artista, costretto in un palco ingombro dagli strumenti del concerto di Brian Ferry, previsto a fine serata, e per un pubblico ancora troppo poco numeroso, ma la musica comincia, e per chi è presente è in omaggio un grande spettacolo.
Un giovane leone cede il posto ad una vecchia gloria: Stanley Beckfort, Starlight per i suoi fans. Famoso e osannato nel suo paese, la Jamaica, conosce la fortuna nel resto del mondo all'età di sessanta anni. Chitarrista ed ex vocalist dei Soul Syndicate, degli Starlights e degli Stanley And The Turbine, presenta qui, di bianco vestito, la sua collezione di mento, genere musicale padre del reggae, e figlio del melting pot caribeno di inizio secolo, esito di quel miscuglio di razze e di traffici che un secolo di storia ha poi differenziato nei diversi stili caraibici
oggi ben delineati, figli tutti della madre Africa che incontrava il seme delle musiche d'Europa. Così suona la sua Big Bambolo, così Soldering, così Dip Dem Jah Jah,
Il gentil sesso è invece rappresentato per l'ultima notte dalla sensualità di N'Dambi, Chonita Gilbert all'anagrafe. Dotata di una straordinaria presenza scenica, è cresciuta alla corte di Erika Badu, ma presenta ora un album solista, Little Lost Girl Blues, che la mette alla pari delle attuali grandi interpreti
del
nu-soul, di loro un po' più jazz, un po' più bluesy. Debitrice di Nina Simone, a cui dedica anche la bellissima Ode 2 Nina, questa black lioness ama gli intrecci di piano e chitarra. È una carezza di jazz e r'n'b' la sua The Meeting, languore blues per la sua Crazy World, solo voce, piano e schioccare di dita.
Altra giovane principessa del nu-soul è India.Arie. Cresciuta ascoltando Curtis Mayfield e Marvin Gaye, Sam Cooke e Donny Hathaway, avvolta in drappi di voile bianco e arancio, usa tutte le nuances del soul per dipingere pezzi come Little Things, con una voce carezzevole e dolcissima, più energica in Can I Walk With You.
Les jeux sont faites, la festa è finita, e la musica pure. Bisognerà attendere un altro anno per risentire tutta insieme questa musica. Nella speranza che sempre più organizzatori dello stivale prendano esempio dalla signora Sicnasi, che questo tipo di programmazione cominci a far gola anche al pubblico italiano, e che i giornalisti italiani decidano di andare a curiosare numerosi tra le scene della Cote d'Azur. Salutiamo anche il faccione variopinto di Count Basie che quest'anno, per il centenario della sua nascita, ha accompagnato queste giornate di musica. Au revoire à l'annèe prochaine à le Nice Jazz Festival.
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Data pubblicazione: 29/09/2004
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