Kamasi Washington Roma, Monk Club, 10 novembre 2015
di Vincenzo Fugaldi
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Trentaquattro anni, sax tenore, nero
di Los Angeles. Presenza imponente, abbigliamento africano come Shepp negli anni
Sessanta del secolo scorso. E, soprattutto, dopo una lunga esperienza al fianco
di musicisti del mondo del jazz e di quello del funky e dell'hip hop, l'esordio
discografico quest'anno con un triplo cd, «The Epic», di dimensioni monumentali:
centosettantadue minuti di musica affidati a un gruppo nutrito (oltre al leader,
trombone, tromba, pianoforte, tastiere, due bassi, due batterie, percussioni, due
vocalist), affiancati da un'orchestra di trentadue elementi e un coro di venti.
E poi un formidabile documento video, Kamasi
Washington's 'The Epic' in Concert, che presenta interviste a lui e
ai suoi collaboratori e le riprese di un bel concerto al Regent Teather di Los Angeles.
Nella proposta musicale di Washington convergono numerose istanze del jazz dagli
anni Sessanta in poi, ma anche il meglio della fusion e della black music di qualità,
con un merito certamente non secondario: avvicinare i giovani al jazz, grazie all'utilizzo
di strutture musicali semplici e accattivanti e di una grande varietà di colori
musicali.
La stessa semplicità delle strutture che nel grande organico risulta efficace grazie
agli arrangiamenti, ha mostrato però la corda nell'affollato concerto romano, dove
il sassofonista era affiancato soltanto dal trombone di Ryan Porter, dalle
tastiere di Brandon Coleman, dal contrabbasso di Miles Mosley, dalle
batterie di Tony Austin e Ronald Bruner Jr. e dalla voce di Patrice
Quinn. Già dall'iniziale Askim è parso eccessivo lo spazio affidato al
tastierista, e anche brani successivi come Leroy and Lanisha o The Rhythm
Changes, pur gradevoli nell'esposizione dei temi, erano gravati da eccessiva
platealità non sorretta da una sostanza musicale altrettanto forte. Lo stesso solismo
del leader non è parso quasi mai brillare di toni sandersiani come sui dischi, e
il raddoppio della batteria, tranne che in Final Thought, non ha garantito
alcun apporto poliritmico, ma solo un appesantimento del beat. Di eccessivo
virtuosismo peccavano anche gli interventi solistici di Mosley, tra archetto e pedale
wha wha. Alla penna del trombonista era dovuto un brano funky non memorabile nel
quale il gruppo ha ospitato il sax soprano del padre del leader, Rickey. La versione
dell'unico standard, Cherokee, ha confermato le perplessità sull'arrangiamento
già ascoltato sul cd, con l'aggiunta di una prestazione vocale non eccelsa.
In sostanza un'occasione mancata, nonostante il gradimento di buona parte del pubblico,
ma attendiamo l'artista in un successivo tour, magari con una formazione più calibrata.