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Jazz Ascona 2016

XXXII Edizione
Ascona, Svizzera - 23 giugno 2 luglio 2016
di Niccolò Lucarelli

Fotografie di Massimiliano Pedrazzini

Jazz Ascona  (by Massimiliano Pedrazzini)Jazz Ascona  (by Massimiliano Pedrazzini)Jazz Ascona  (by Massimiliano Pedrazzini)Jazz Ascona  (by Massimiliano Pedrazzini)Jazz Ascona  (by Massimiliano Pedrazzini)
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Edizione spumeggiante e raffinata, la numero XXXII di JazzAscona, grazie a un cartellone caleidoscopico articolato su una giusta miscela di tradizione e innovazione, fra sonorità della Louisiana e sound europeo contemporaneo, giovani talenti e artisti ormai affermati. Una scelta curatoriale che conferma la vitalità e la curiosità che animano JazzAscona, ormai riconosciuta platea internazionale dove ascoltare il jazz di New Orleans nelle sue svariate riletture e contaminazioni, senza però tralasciare interessanti incursioni nel blues, che ha in Lousiana la sua seconda patria dopo Chicago.



Area musicale di riferimento, comunque, il jazz di New Orleans, adeguatamente rappresentato da un nutrito gruppo di artisti, fra i quali hanno spiccato i New Orleans Jazz Vipers, fra i più accreditati interpreti della tradizione delle marchin' band; di queste formazioni, i Vipers conservano l'ossatura, avendo in organico ben quattro fiati su sei strumenti, mentre la chitarra e il contrabbasso di Reeve e Gouzy assicurano la base ritmica. Ne scaturisce un sound puramente "Southern", esaltato dai tanti standard che costituiscono il repertorio della band; un sound corposo, che si forma sotto il continuo dialogo degli strumenti, e che raramente ricorre all'assolo. La miscela che dà la carica ai Vipers, è in parte costituita dallo swing, in parte dal blues, mutuati da standard degli anni Venti e Trenta, e la serata scivola via su queste due "scuole di pensiero", che si dividono equamente il campo: apertura e chiusura in swing, e parte centrale del concerto in blues. In repertorio, gli standard della tradizione, a cominciare da Jeepers Creepers, di Warren e Mercer, caratterizzato da un robusto contrabbasso che sembra replicare in musica la ruvidezza dello slang del Sud. I fiati suonano all'unisono, e incedono con divertita pigrizia lungo un sentiero di note acute, che suggerisce il medesimo placido scorrere del Mississippi, e ascoltando queste note non è arduo immaginarlo solcato dai leggendari battelli a vapore. Un jazz che non sarebbe dispiaciuto a Mark Twain e al suo Huckleberry Finn, intrisa com'è di spensieratezza e buonumore, che ha nel sangue il Mardi Gras e che forse incarna la realtà più pagana della "musica del diavolo", ma porta in sé anche l'anima del Meltin' Pot più colorato, ben diverso da quello del grigiore industriale degli Stati del Nord.

Il lato sentimentale dello swing emerge nello standard Margie, esempio del più puro stile New Orleans, con le sue influenze di dixieland e ragtime; un lato sentimentale che però non sembra essere preso troppo sul serio, come dimostrano i fiati sempre un po' sornioni sul registro semi-acuto, e il dinamico ritmo in 3/4; diametralmente opposto a quello che sarebbe stato a New York. Un jazz che ha il sapore di un allegro carnevale, picaresco che si distende colorato e impetuoso come un romanzo dell'epopea eroica americana, uno su tutti quelle Avventure di Augie March con cui Saul Bellow raccontò l'America degli anni Trenta. Una performance allegra e coinvolgente, anche grazie all'istrionismo dei musicisti, che portano dentro il calore e l'esuberanza di New Orleans.

Le contaminazioni del jazz sono tante, in particolare in Louisiana, una zona franca degli Stati Uniti, sospesa fra il "Vecchio West" e il carnevale, una certa aria francese e l'Africa nera, con qualche contaminazione caraibica. Il jazz poteva nascere soltanto qui, per farsi portavoce delle colorate sfumature dell'umanità. Se poi consideriamo che in Louisiana esistono ben tre "regioni musicali" - dal jazz, appunto, al country, a una ibrida di blues e zydeco -, è chiaro come il quadro generale sia improntata a creatività e contaminazione. Di questo clima hanno approfittato Aurora Nealand e Tom McDermott, al sax la prima, al pianoforte il secondo; un duo originale che reinterpreta gli standard della tradizione jazz di New Orleans e di quella country della Louisiana settentrionale, con incursioni anche nella musica brasiliana. Per queste ragioni Nealand e McDermott si sono guadagnati un posto in primo piano sulla scena jazz cittadina.

Sulle rive del lago Maggiore hanno eseguito un repertorio di omaggio alla tradizione della Louisiana, che ha spaziato dal country-blues al jazz, prendendosi il lusso di due incursioni nella musica brasiliana, a confermare l'ideale vicinanza di New Orleans con l'America Latina. Ad aprire il concerto, lo standard Margie che Aurora canta con una calda voce appena venata di sfumature roche, tipiche dello stile country&western, mentre McDermott al pianoforte si avventura su passaggi del music hall più grezzo; imbracciato il sax, Nealand duetta con il piano, ma i due strumenti non seguono gli stessi fraseggi, anzi si compenetrano su tonalità diverse, e si intersecano sugli acuti. Un bell'omaggio a New Orleans, e non casualmente il brano è stato eseguito anche dai New Orleans Jazz Vipers, due sere prima. Su analoghe corde, Miss the Mississippi and you, una struggente ballata country-blues scritta da Jimmie Rodgers nel 1932, che Nealand interpreta con delicatezza, accompagnata dal pianoforte. Ogni sillaba del testo è lanciata al pubblico con sentimento, tale da suggerire la malinconia di fondo della canzone. Per questo brano, eseguendo la parte strumentale, Nealand lascia il sax soprano per il tenore, con cui traccia nell'aria note che suggeriscono un dolceamaro tramonto sul fiume. L'atmosfera è quella di un blues sentimentale, disperato e rabbioso, di quelli che si potrebbero ascoltare in un bar che trasuda whisky persino dai mattoni. Questa concretezza "terrena" è suggerita dal pianoforte, a tratti cadenzato, con passaggi da music hall.

L'atmosfera cambia con Proezas de Solon, brano classico della tradizione latinoamericana; Nealand e McDermott ne elaborano un'interessante rilettura "ibrida", a metà fra le sonorità latine del sax e il suggestivo pianoforte di blues "espressionista". Ne deriva un'atmosfera affascinante dagli opposti colori: al rosso e al giallo del sax si affiancano suggestioni più oscure di scuola europea. Una contaminazione che porta l'esecuzione sulle stesse corde di una poesia di Antonio Machado. Alle note latineggianti del sax, Nealand aggiunge, nelle pause, il ritmo vibrante delle maracas.

Nel corso della serata si susseguono standard della Louisiana, fra cui spiaccano: When I get low, I get high, leggendario brano interpretato da Ella Fitzgerald, caratterizzato da un pianoforte cadenzato e un sax leggero e svolazzante, e l' intermezzo "cinematografico" con Did I do, da Buster Keaton; un brano vivace che suggerisce le scene più movimentate delle pellicole mute interpretate dal grande attore, dove un divertente pianoforte che richiama lo stile Tin Pan Alley, duetta con il sax che concede fraseggi virtuosistici sui toni avuti. A spezzare il ritmo, Tico Tico, il leggendario standard latinoamericano, celebrato anche da Woody Allen in Radio Days. Se Nealand sprona il suo sax lungo i fraseggi latini che seguono scrupolosamente lo spartito originale, McDemott vi apporta elementi di originalità: per la prima volta nella serata, trae note gravi dal pianoforte, disegnando atmosfere inconsuete per questo tipo di brano, per poi, quasi improvvisamente, tornare in clima latinoamericano.

Un concerto lineare ma piacevole, senza sussulti, dedicato alla tradizione del Sud. Sentir cantare Aurora Nealand, è come sentir cantare la Louisiana, per la quale esprime un'autentica dichiarazione d'amore; il suo sax porta un tocco di jazz nelle assolate atmosfere country-blues, così come risultano interessanti i cambi di tempo che toccano diversi brani, dei quali arricchiscono il tessuto armonico e narrativo. E sullo sfondo, la Louisiana eroica degli anni Trenta, percorsa in ogni senso dai treni di disperati in cerca di una nuova speranza. Anche i musicisti dell'epoca contribuirono a raccontarla, imbevendo le loro composizioni di quella struggente malinconia, che Nealand e McDermott ci restituiscono rileggendola con sensibilità.

Fra i debutti di questa XXXII edizione, l'organista Barbara Dennerlein, che ha regalata al pubblico del Jazz Club Casinò l'esuberanza del suo Bebop suonato con l'Hammond B3, di cui è considerata la più autorevole esponente. Al suo fianco, il batterista Pius Baschnagel, la cui robusta presenza sonora ha avvolto le melodie di Dennerlein in una concretezza ora urbana, ora blueseggiante, ora strettamente swingante.

Ad aprire il concerto, Elephant Blues, dove Dennerlein dispiega una tecnica dinamica che ricorda i lavori di Ray Manzarek con i Doors, precursore dell'organo blues su ottave alte. Si tratta di un brano dal suono denso, a tratti con virtuosismi psichedelici, ma sostanzialmente contemporaneo, con incursioni in ritmi decisamente ballabili che il pubblico segue con divertita attenzione. I lunghi fraseggi sulla linea di basso dell'Hammond apportano sonorità fortemente concrete, difficilmente identificabili come jazz, se non fosse per la celeberrima definizione di Armstrong. Baschnagel alla batteria spazia dalle percussioni, al ride e al rullante, dettando e insieme sostenendo il tempo dello Hammond.

Fra i momenti migliori del concerto, A summer day, introdotto da uno struggente passaggio organistico sul registro grave che dipinge un intenso tramonto estivo, raccontando con le note quello che alle sue spalle sta accadendo sul Lago Maggiore in un'afosa serata di giugno. Il brano scorre caldo e avvolgente - un vivace 3/4 sostenuto dalla batteria -, con un tocco di malinconia apparentabile ad una pagina di Hemingway. Dennerlein disegna con l'Hammond fraseggi strettamente pianistici nella prima parte del brano, per poi tornare all'organo classico, che lascia le atmosfere romantica per sfrangiarsi nel pragmatismo contemporaneo. Con femminile astuzia, Dennerlein sembra raccontare uno spaccato di vita senza lieto fine, dove entrano la disillusione degli anni Zero, e un certo gusto decadente mutuato da Rainer Maria Rilke. E ancora Going home, dalla forte personalità concettuale, caratterizzato nella sua prima parte da un suono metallico, al limite della saturazione, preludio però a un incedere più delicato; il suono si fa più intenso e compatto, un'alternanza che è la perfetta metafora del lungo cammino affrontato da chi, per una ragione o per l'altra, sta tornando a casa; dopo una vittoria o dopo una sconfitta, non ha importanza. Ciò che conta è quel sapore dolceamaro che affiora dall'anima, quello scotto che è il prezzo da pagare per un po' di solitudine; questo racconta quell'alternarsi di luci e ombre sulla tastiera dell'Hammond, che avvicina l'amarezza di Don DeLillo e del suo Cosmopolis.

Sullo sfondo di questo jazz atipico, sia concettualmente sia musicalmente, si coglie la matura disillusione del rock più adulto, a tratta comunque intervallata da fraseggi di swing in un vivace 4/4. Certi passaggi pianistici, eseguiti su tutto lo spettro della tastiera, ricordano lo stile di Mehldau; parimenti attivo Baschnagel alla batteria, dove alle swinganti percussioni alterna affascinanti passaggi al ride e ai tom-tom, cui aggiunge robusti colpi di grancassa. Un dinamico dialogo strumentale, che un po' ripercorre il solco di Coltrane.

A portare un tocco chicagoano ad Ascona, Sam Burckhardt e il suo quartetto; Burckhardt, elvetico di Sursee, ma esponente dello swing di Chicago unito alla scuola newyorkese, conosciuti nei lunghi anni trascorsi negli Stati Uniti, al fianco di Sunnyland Slim dal 1982 alla sua scomparsa nel '95, e successivamente come membro della band The Big Swing. A JazzAscona, Burkhardt è accompagnato da Pete Benson alla tastiera, Beau Sample al contrabbasso, Drummer Hall alla batteria e Joel Paterson alla chitarra. La presenza di questa, a scapito del pianoforte, apporta un tocco di modernità all'impianti classico del quartetto jazz; trattandosi inoltre di una slide, ecco che l'impronta si fa decisamente blues, a metà fra Howlin' Wolf e Les Paul. Su queste basi, Burckhardt costruisce un concerto di omaggio e rilettura degli standard dei mostri sacri del jazz, da Count Basie a Duke Ellington, accanto a brani quali Fly Over, Bird Watching, Early Bird Blues, brani che guardano a un determinato periodo storico, anche ambiguo se vogliamo, come l'America della prima metà del secolo scorso, ma pulsante di vita e d'idee, che lo sforzo bellico in Europa contribuiva paradossalmente a elettrizzare, e che il jazz ha saputo raccontare.

Burckhardt dà prova delle sue qualità di crooner cantando All of me, uno standard del 1931 cantato anche da Frank "The Voice" Sinatra. Eseguito in tempo moderato, il brano è sorretto dal sax svolazzante come una rondine su Central Park, un'atmosfera che evoca eleganti signore in tubino di seta, uomini in completi Brooks Brothers, conversazioni ammiccanti e calici di champagne. La New York di Fitzgerald, sentimentalmente impegnata, che non disdegnava le frivolezze mondane. In accordo a queste atmosfere, Burckhardt e soci costruiscono un jazz rotondo e robusto, incentrato sull'armonia degli strumenti, su cui spiccano i dialoghi sax/slide, che suggeriscono spensierate e scintillanti, le stesse del primo American Dream, che inneggia alla joie de vivre - come la Belle Époque aveva fatto a Parigi trent'anni prima -, e che Woody Allen ricorda ancora con nostalgia, in pellicole come Manhattan o Radio Days.

Il jazz "classico" è protagonista in Blue and sentimental, scritta da Count Basie nel 1938. Un pezzo lunare in 2/4, dove per l'occasione Paterson alla chitarra lascia l'esuberanza blues per accompagnare il sax di Burckhardt con lente note cadenzate. Un bra o che riecheggia la letteratura di Sinclair Lewis, con i suoi scenari urbani di quotidiano dolore e disillusione, grandi sogni e inaspettate vittorie.

Burckhardt è esponente di un jazz maturo e raffinato, capace di unire struggenti passaggi di sax della vecchia scuola a fraseggi di chitarra puramente blues, così come di alternare coinvolgenti ballabili in 3/4 a pensosi e romantici brani in tempo moderato. Un concerto che tira fuori l'anima newyorkese e la deposita delicatamente sulle rive del Lago Maggiore, un'anima con le sue storie di party scintillanti e di prostitute ai margini delle strade, di famiglie operaie e di magnati dell'industria, un'anima squallida e attraente insieme. Al jazz il merito di renderla affascinante.

Anche in questo 2016, JazzAscona si è confermato un festival accattivante, in corretto equilibrio fra avanguardia e tradizione, che ha ottenuta un'entusiastica risposta del pubblico.







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Data pubblicazione: 02/07/2016

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