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NEW YORK - Diario di bordo di un musicista alla scoperta della musica Klezmer.
di Mario Fragiacomo


Chissà perché, tutti i musicisti che approdano a New York, o almeno tutti quelli che hanno vissuto un po' d'America, raccontano mirabilie di questo posto immenso e affascinante quasi loro fossero di casa, non solo, ma addirittura raccontano che riescono persino a suonare con famosi jazzisti. 
Che sia una città unica e stupendamente diversa lo è senza dubbio, ma che si riesca a suonare con tanta facilità lo è un po' meno per il semplice fatto che bisogna avere una speciale autorizzazione dall'ente preposto alla tutela dei musicisti/artisti locali

Sono stato un po' di anni fa a New York al seguito di una compagnia musico-teatrale che mi ha ingaggiato per una tournée il cui epilogo è stato appunto questa città (oltre Berlino, Roma, Parigi, Cracovia) dove ci siamo esibiti per quindici giorni con un riscontro entusiasmante al
Teatro La Mama. Per chi non lo sapesse il teatro La Mama è il più vivo di New York, vera fondatrice dell'off-off Broadway l'ormai leggendaria Ellen Stewart, una simpatica giovane signora ultrasettantenne, che ogni sera prima del nostro spettacolo, ma ho saputo, anche prima di qualsiasi manifestazione, saluta gli spettatori presentando i vari artisti con una tale carica che la rende per un attimo attrice, o comunque artista-personaggio. Ama molto circondarsi di persone creative o come lei stessa sostiene "I love fine artists", tant'è che nel suo teatro si sono esibiti grandi stelle come Robert De Niro, Harold Pinter, Bette Midler, Nick Nolte, Sam Shepard, Billy Cristal ed altri noti artisti non americani. E' infatti uno dei pochi personaggi in America a puntare sugli artisti internazionali malgrado ciò la renda non gradita al Governo americano. 

Lo spettacolo a cui ho partecipato in veste di musicista/attore, non perché recitassi ma perché mi muovevo in scena coreografato, è un dramma musicale, ma per poterlo rappresentare, parte dei musicisti, sempre per un fatto protezionistico, doveva essere assolutamente americano; infatti il trio dei musicisti che stavano nella "buca", gli unici a non fare nessun movimento, erano stati ingaggiati a New York. L'ho saputo dopo che noi eravamo stati ingaggiati come "orchestrali" per risparmiare sulle tasse USA e quindi dovevamo sottostare alle rigide regole americane.

Le musiche predominanti di questo spettacolo sono d'impronta Klezmer (la musica strumentale degli ebrei dell'est europeo, sviluppatasi anche nell'impero austro-ungarico tra il settecento e l'ottocento e trasmigrata in America) un genere musicale sconosciuto a molti, fino a pochi anni fa. 
Mi soffermo un attimo di più a parlare di musica klezmer, anche se non sono in grado di dire molto, non solo perché ho approfondito la sua conoscenza in questi ultimi anni, ma perché in effetti non è facile definirla e datarla. So per certo che si tratta di musica popolare ebraica di impronta balcanica. Tutte le minoranze etniche in America si sono identificate in qualche modo creando delle correnti musicali ben precise: i nero-americani hanno dato vita al blues, unica etnia a dare vita ad un genere musicale del tutto originale, mentre la comunità yiddish si è posta (soprattutto per la sua maggior personalità improvvisativa) tra le produzioni musicali che in qualche modo, hanno preannunciato il fiorire del jazz. 

In tutti i musicisti ebrei approdati al jazz (da Stan Getz a Benny Goodman, da Mezz Mezzrow a Ruby Braff ed altri) c'è un'impronta klezmer. L'uso dei cosidetti bisacuti, di certe sonorità rauche, l'improvvisare liberamente con il sottofondo dell'intera orchestra tipiche di Benny Goodman, ad esempio, oppure il famoso glissando di clarino nella
Rapsodia in Blue di Gershwin, sono tipici del linguaggio klezmer o meglio degli interpreti klezmer (sempre trasgressivi nei confronti della notazione musicale tradizionale: manipolazioni dell'intonazione, fischi d'ancia, utilizzo del sovracuto, distorsioni fonetiche, vibrati accentuati fino a raggiungere il tono superiore o inferiore della nota suonata ecc. ecc.). 
Con questo non affermo che il Klezmer sia jazz, ma, come aveva scritto Gianni Gualberto in passato sulla rivista Blujazz in un interessante trattato su questo genere musicale, e dal quale ho tratto parte di queste considerazioni, ai moduli jazzisti appartiene di diritto più di qualsiasi altra musica di derivazione etnica in America, ad eccezione del Blues. 

Voglio citare un paio di esempi che qualsiasi intenditore di jazz conosce, magari senza sapere che si tratta in realtà di musica klezmer: "
The Angels sing", che fu elaborato jazzisticamente dal trombettista Ziggy Elman nell'orchestra di Benny Goodman, (memorabile il concerto tenuto alla Carnegie Hall) e "Bay mir bistu sheyn" che sicuramente tutti ricorderanno nella famosa versione che ne dettero le Andrews Sisters nel 1938.

A New York ho visitato inoltre l'YIVO (Institute For Jewish Research di Henry Sapoznik) vicinissimo al Metropolitan Museum of Art, nel quale ho trovato preziose indicazioni sonore sulla cultura Yiddish introvabili in Europa. Ho ritrovato anche alcuni componenti del gruppo Klezmatics (la violinista) che part-time occupava un lavoro impiegatizio mattutino in questo Istituto di ricerca.

Forse qualcuno ricorderà che anch'io in Italia feci uscire un album, "
Latitudine Est" su questo genere musicale. 

L'idea di portare nel jazz italiano questa musica etnica mi venne a Berlino, durante un concerto con la TheaterOrchestra di Moni Ovadia, anche se la tipicità della storia dell'ebraismo triestino, punto di contatto e di passaggio tra il mondo Mediterraneo e la Mitteleuropa, mi ha da sempre fatto pensare che anche le musiche del repertorio sinagogale triestino e le musiche popolari ebraiche (Klezmer) fossero un caso particolare e per questo affascinante. Sappiamo tutti inoltre che contemporaneamente negli Stati Uniti John Zorn e Don Byron avevano compiuto la mia stessa operazione. Infatti "
Latitudine Est" uscì parallelamente ai progetti dei colleghi americani più famosi. Forse per questo anche in Italia, questo album ha avuto un largo consenso di critica su tutta la stampa specializzata.

Ma torniamo a New York, a questa mitica, incredibile città, all'esaltante sensazione che ti dà quando ti trovi con il naso per aria ad ammirare le più alte costruzioni del mondo, tutte insieme, vicine, una accanto all'altra, a girare per queste strade di cui hai tanto sentito parlare, a stupirti per la gentilezza dei suoi cittadini e a scappare scioccato per la brutalità di altri. Per un po' ho vissuto la New York diurna fatta di visite d'obbligo per un turista, e la New York notturna per il musicista, ma, mentre al turista alcuni giorni sono bastati per avere almeno un assaggio della "Grande Mela", non così è stato per il musicista che avrebbe voluto avere ancora molte sere per poter assistere ai tanti concerti e concertini nei vari locali di cui è disseminata la città. 

Al "
Village Vanguard", il tempio del jazz, in pieno Greenwich Village, ho assistito a un bel concerto di Mal Waldron. Qui hanno suonato altri grandi del jazz come Sonny Rollins, Thelonius Monk, J.J. Johnson, Elvin Jones e moltissimi altri. Il Vanguard mi era stato suggerito da Beppe Ballaris, che ogni jazzista italiano immancabilmente incontra a New York (fa parte della troupe televisiva della Rai Corporation).

Una sera sono stato al "
Blue Note", Terza strada, 131 west, non per ascoltare la stella di turno ma per sentire alla fine dei programmati set, quindi "after hours" Ted Curson in quartetto, specialista del registro acuto. Il massimo per un trombettista sfegatato come me!

Un'altra sera sono al "
Fat Tuesday" dove si era esibito Stanley Turrentine. Recentemente, mi sembra di aver sentito, purtroppo, che questo locale sia stato chiuso.

M
itica la sera con una giovane amica di Dallas, incontrata nel foyer del La Mama, che mi ha condotto al "
Knitting Factory", sempre nel cuore del Village, dove spesso i più fortunati potevano assistere alle libere improvvisazioni di John Zorn e Tim Berne. Io ho avuto la fortuna di assistere ad una performance in trio con Bill Frisell.

Le serate musicali sono varie e movimentate, non c'è che la difficoltà della scelta, basta consultare il "Village Voice", settimanale fonte di notizie su tutto quanto riguarda il jazz, i teatri off-off Broadway, la danza e tutto ciò che accade nei "loft", nelle cantine e nei mille piccoli teatri. 

Una sera sono stato invitato in una discoteca dove era stata organizzata una festa di carnevale ebraico (Jewish Carnival Feast) e dove suonavano gli ormai mitici Klezmatics. Devo dire che ho chiacchierato a lungo con la violinista del gruppo, anche perché aveva dei legami con la mia Trieste (conosceva la famiglia Stock, con cui ho avuto dei rapporti di collaborazione in passato) e doveva esibirsi, guarda caso, pochi giorni dopo in Italia al Teatro Miela di Trieste!

Sono anche stato ospite di Lew Soloff (famoso trombettista della Manhattan School of Music) ed ho approfittato di questo avvicinamento per chiedergli alcuni suggerimenti di tecniche trombettistiche. E' stato anche tanto cortese di indicarmi dove acquistare una tromba nuova ad un buon prezzo.

New York comunque, non è solo musica, grattacieli o occasioni di shopping, è anche la città dei ricchi e dei poveri, così poveri da non avere neanche un posto dove dormire. La difficoltà maggiore per noi è il rientro nel nostro residence-albergo, camminare per le strade alle due del mattino non è consigliabile, farlo da soli men che meno, per fortuna basta alzare un braccio e subito ti si affianca un taxi. Come altre metropoli, è disseminata di barboni, ma qui forse colpiscono maggiormente perché non si aggirano solo nelle zone più povere ma nella ricca e sfavillante Manhattan. Giovani e meno giovani, non puoi fare due passi che t'infastidiscono scuotendo sotto il tuo naso un bicchiere di carta con delle monete dentro per invitarti a dare la tua parte, quando non ti succede di peggio rischiando l'aggressione. Mi è capitato di vedere più volte, dei barboni intirizziti dal freddo che dormivano per strada, avvolti con dei cartoni e qualche altro (più fortunato) rintanato in uno squallido portone (al caldo però!). Comunque tutti con l'immancabile bottiglietta in mano avvolta in un sacchetto di carta. Per legge in America non puoi bere alcolici in strada, ma se avvolgi l'oggetto del desiderio con un sacchetto di carta, in caso di perquisizione non ti possono multare in quanto agli agenti non è permesso ispezionare o comunque verificare quanto è di tua proprietà senza un mandato di perquisizione! Ogni mattina, dalla finestra del mio albergo in Manhattan, noto che alcuni barboni frugano nei bidoni della spazzatura, con tanta disinvoltura, che talvolta scelgono accuratamente la mercanzia trovata, per riporla in alcuni sacchetti differenziati. Altre volte li ho visti addirittura mangiare quello che avevano trovato all'interno!

A
causa del crack, il crimine di strada più diffuso a New York è il "mugging", cioè l'aggressione con cui ci si procura i soldi per il prossimo buco. Una volta è toccato pure a Beppe Ballaris, che appunto mi ha suggerito di cautelarmi mettendo il denaro in tasche diverse e se tocca a te, di non tentare di difenderti. In linea di massima il tuo aggressore si dovrebbe accontentare di 25, 50 dollari: la "tariffa"!

Una sera, all'uscita di una metropolitana, una vecchia signora di colore urlante, molla davanti a tutti un bisogno fisiologico liquido, con tanto impeto che forma subitamente una sorta di ruscello! Vicino a lei ci sono alcuni spacciatori di droga, che incuranti dell'accaduto, cercano disperatamente un acquirente da intrappolare. Non siamo isolati, c'è moltissima gente attorno, siamo in pieno Greenwich Village, a Manhattan, eppure nessuno si stupisce. Forse tutto questo rientra nella normalità! 

Un'altra sera, sotto, in un'altra stazione della metropolitana incontro un giovane nero che cantando si accompagna con uno strano strumento: era un rudimentale strumento formato da una tinozza rovesciata (che fungeva da cassa armonica) dal cui centro partiva una corda (dello spago da pacco postale, per intenderci) che raggiungeva un manico da scopa. Lungo il manico di questa scopa scorreva appunto la corda che veniva pizzicata a mo' di contrabbasso mentre l'altra mano impugnava il manico e contemporaneamente stringeva la corda e, a seconda dell'altezza dell'impugnatura, mutava il suono. In poche parole il manico fungeva da tastiera di contrabbasso. Cantava in un modo splendido (jazz-scat) e il ritmo generato dall'improvvisato contrabbasso era incalzante. Tanta era la musicalità di questo personaggio che non mi sarei mai mosso da quel posto.

Tutta questa mescolanza di fatti, di stili di vita, di cosmopolitismo forzato, di provincia e metropoli insieme fanno di New York una città affascinante, la mia preferita, e a prescindere da qualsiasi considerazione merita un viaggio.
Mario Fragiacomo

Link utili:
Il sito ufficiale di
Moni Ovadia
Il sito della musica
klezmer
La pagina di
Mario Fragiacomo su Jazzitalia


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Data pubblicazione: 04/09/2001





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